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Ioscrittore 2023, come funziona quest’anno (e qualche consiglio)

C’è tempo fino al 30 marzo 2023 per inviare il proprio incipit e partecipare al concorso per aspiranti autori Ioscrittore.
Cos’è, come funziona, quali tattiche adottare? Io ho partecipato due volte, entrambe le volte arrivando in finale. Ecco come funziona e qualche piccolo consiglio.

Cos’è Ioscrittore?
Ioscrittore è il concorso del Gruppo editoriale Mauri Spagnol per aspiranti scrittori. Molto seguito – fino a oggi sono stati 46787 gli aspiranti autori che hanno partecipato –, mette in palio la pubblicazione con una delle case editrici del Gruppo. In realtà tengono a specificare gli organizzatori, è più di un concorso: è una grande operazione di scouting costantemente monitorata dagli editor di GeMS.

Come funziona Ioscrittore?
Fino al 30 di marzo 2023 puoi caricare il tuo incipit sulla piattaforma. Il file, che deve seguire alcune norme grafiche descritte sul regolamento, dovrà contenere le prime pagine del tuo romanzo (tra le 30.000 e le 60.000 battute). 
Ad aprile inizierà il lavoro. 

Sul tuo account personale della piattaforma Ioscrittore saranno caricati una decina di incipit (potrebbero essere anche meno) di altri partecipanti. Dovrai leggerli tutti, commentarli, e dare un voto secondo alcuni parametri che ti saranno forniti. Il tuo incipit sarà a sua volta letto da una decina di partecipanti (anche qui il numero può variare leggermente) e commentato. 
Consegnati i tuoi – e solo in questo caso – al termine della prima fase riceverai i commenti sul tuo incipit. In base ai giudizi sarà stilata una classifica (invisibile ai concorrenti) e i primi trecento (l’ultima edizione erano quattrocento) incipit classificati passeranno alla fase finale. 
E qui inizia il bello. 

Le possibilità a questo punto sono tre. 
La prima
: non sei passato, fattene una ragione, leggi i commenti e cerca di migliorare per l’anno prossimo. 
La seconda: non sei passato, ma se vuoi puoi continuare come lettore (potrai ancora giudicare, ma sarai fuori gara). 
La terza: eureka, sei passato! Festeggia con gli amici e rimettiti all’opera! La fase più “faticosa” comincia adesso. 

È il momento di consegnare il plico. Carichi sulla piattaforma la tua opera completa (hai tempo fino all’11 luglio 2023) e ricevi dieci romanzi altrui, che dovrai leggere e commentare, come hai fatto con gli incipit, entro il 19 ottobre.
A questo punto intervengono gli editor delle famose case editrici e designano una rosa di 10 finalisti (di questi, tutti vedranno il proprio manoscritto pubblicato in versione digitale). 
Ci sarà una giornata finale (le ultime tre sono state in remoto) in cui sarà proclamato il vincitore definitivo, quello a cui sarà pubblicato il romanzo in forma cartacea. Fine. Tutto l’iter dura da aprile a dicembre.

I pro e i contro del concorso Ioscrittore. 

Pro
È gratuito, è seguito da editor di grandi case editrici, alcuni partecipanti delle edizioni passate sono diventati poi autori di successo (Silvia Celani e Ilaria Tuti, per esempio), e puoi ottenere svariati pareri sul tuo romanzo.

Contro
Avrai da leggere e commentare 10 incipit e, se passi in finale, 10 romanzi interi. Nelle intenzioni degli organizzatori i voti dovrebbero essere dati con criterio, competenza e onestà, ma non sempre accade. Spesso i commenti non sono leali e, spiace dirlo, nemmeno competenti. 

E ora alcuni consigli per avere qualche probabilità in più nel concorso Ioscrittore. 

CONSIGLI PER IOSCRITTORE

Concentrati sulle prime pagine. L’incipit è importantissimo e deve acchiappare il lettore da subito (ne parlo più approfonditamente qui). Perciò rendilo potente e accattivante. 

Correzione di bozze. Fai attenzione ai refusi, alla grammatica e rispetta le norme redazionali (virgolette giuste, attenzione agli spazi prima degli apostrofi ecc.). Un testo pieno di errori dà al lettore un immediato senso di amatoriale, e tu non vuoi che questo succeda. Vero?

Falla facile. Non proporre testi troppo complicati. Semplici, chiari, leggeri, meglio se ironici – l’ironia acchiappa sempre in questi concorsi – e non troppo lunghi. Sì, c’è un massimo di battute (800.000), ma non è il concorso adatto a presentare tomi mastodontici. 

Occhio all’impaginazione. Segui fedelmente le norme grafiche del concorso. Sul sito è possibile scaricare un file di esempio che mostra come impaginare l’opera. Attieniti quanto più riesci a questo esempio.

Tieni presente che il testo sarà letto da persone che come te dovranno leggere e commentarne altri 9, persone che come te stanno partecipando a un concorso e non hanno nessun vantaggio a farti emergere. Anzi.
Come dici? Puoi fare la stessa cosa anche tu? Abbassare i voti degli altri per avere più possibilità di vincere?
Certo, potresti. Ma capiamoci: su cinquemila concorrenti ne vince uno, gli altri vincono solo la possibilità di avere dei giudizi sul proprio testo per poterlo migliorare. Non è il caso di essere onesti, leggere fino in fondo le opere altrui e valutarle con correttezza, rispetto e competenza?
Va detto che per invogliare a letture e giudizi più accurati GeMS assegnerà anche il premio Miglior lettore; i primi dieci classificati vinceranno un e-reader e un buono per l’acquisto di libri e il primo

Per concludere, ti consiglio questo post in cui l’autrice Samanta Sitta (confermata e premiata anche nel 2022 come migliore lettrice a Ioscrittore) racconta della sua prima esperienza con il concorso, nel 2019. Interessante e spassoso.

Spero di averti chiarito alcuni dubbi, ma se dovessi averne altri sai come contattarmi. Non mi resta che augurarti buona fortuna per la tua partecipazione al torneo!

“Le persiane verdi”, di Georges Simenon | recensione

Adelphi riporta in libreria Georges Simenon in questa nuova edizione di Le persiane verdi, per la traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. 
Émile Maugin è un attore cinquantanovenne che ha raggiunto il successo solo in età avanzata. Fino ai quaranta “ha fatto la fame” e, adesso, nonostante il grandissimo successo, il senso di incompiutezza non lo abbandona. Quando il medico gli rivela che, con il cuore così malmesso, se non modifica il suo stile di vita gli rimarrà ancora poco da vivere, Maugin è costretto a fare un bilancio della propria vita. A tirare le somme. E si accorge di aver paura della morte, perché ancora, nonostante le sue ricchezze e la sua fama, non ha ottenuto la cosa più importante: la casa con “le persiane verdi”, ovvero la sua pace terrena.

L’inconsistenza, di fronte alla possibilità del tutto.
Dissolutezza, la chiamano. È uno stadio a cui molte star adattano il proprio modo di vivere. Un modo per cercare di dare un senso a quel paradossale straniamento che il potere di avere tutto comporta. Quando hai tutto ciò che vuoi, quando la vita è ormai un desiderio perenne, l’esistenza si riduce alla ricerca continua di qualcosa, sempre di qualcosa, che non arriverà mai perché l’obiettivo, l’oggetto agognato, cambierà con il suo raggiungimento. Allora questa vita deve darti di più, sempre di più. Ma una vita senza confini sfocia per definizione nell’eccesso, quello che porta Maugin a lavorare senza sosta – anche con un’età e un prestigio sociale che gli consentirebbero di prendersi pause senza timori –, ad abusare di alcolici, a molestare la (più o meno consenziente) servitù di casa, a trattare il prossimo come un suddito, un peso, un ostacolo.

È in tutto questo marasma, questa dissolutezza, questi eccessi, queste possibilità pressoché sconfinate, che emerge dal cuore di Maugin un senso di alienazione, spaesamento, solitudine, nonostante sia attorniato da uno stuolo di lacchè e sostenuto da una giovane moglie innamorata e devota. Forse è soltanto la paura dell’ignoto che l’apprestarsi della morte come immagine sempre più imminente porta con sé. L’antico dilemma. Chi sopporterebbe grugnendo e sudando il peso della vita se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte ci spaventa e ci impedisce di ucciderci? Qui, a differenza dell’Amleto, non si parla di suicidio, ma la paura atavica di qualcosa da cui non c’è ritorno torna incombente anche in queste pagine, tinte di scuro, di solitudine, di amarezza.

Scritto nel gennaio del 1950 in una decina di giorni abbondanti, Le persiane verdi è un romanzo che appartiene ai romans durs, la categoria che Georges Simenon ha coniato per distinguere i suoi romanzi più popolari, i cosiddetti romans de gare, la saga poliziesca di Maigret, per intenderci, da quelli, come il presente, più psicologici, cupi e complessi.

La scrittura è sempre pulita, asciutta, priva di fronzoli o distrazioni, rigorosamente al servizio della prosa, elaborata per sottrazione. Ma rispetto ai Maigret, da questi romanzi emerge un autore più attento ai contrasti, alle sfumature psicologiche dei personaggi e alle loro dinamiche interiori. Come avviene per Maugin, un uomo che si compiace del suo apparire burbero, severo, arcigno e piuttosto scostante, ma il cui vero sogno è una casa con le persiane verdi, simbolo di una vita semplice e tranquilla, lontana dal clamore del successo e dalle angosce dell’esistenza. Un’esistenza che sembra offrirgli tutto, tranne la felicità.

“La vita di chi resta”, di Matteo B. Bianchi | Mini recensione

Dopo oltre vent’anni dall’accaduto, Matteo B. Bianchi trova con La vita di chi resta la forza di raccontare attraverso la forma scritta il più grande dolore della sua vita, dal momento in cui, dopo la telefonata conclusasi con “quando torni io non ci sarò già più”, trova in casa il cadavere del suo compagno impiccato. Raggiunta a suo dire una sufficiente distanza dal fatto, l’autore tenta l’ardua impresa di scriverne.

La vita di chi resta è un memoir, una raccolta di pensieri riordinati in anni di sofferenza, trambusto ed elaborazione. È scritto bene e ben strumentato, ma parlare di aspetti tecnici e narrativi in un libro di questo tipo non è appropriato. Di fronte a un’analisi che sembra sincera e rappresenta una caduta negli inferi del lutto, nei sensi di colpa che si rinnovano in una instabilità emotiva che si innesta come stato di partenza per tutto il resto, di fronte a tutto questo dolore è difficile parlare d’altro. Difficile e inutile.

Ho apprezzato la sincerità e il coraggio, più di tutto il resto, anche se personalmente non sono del tutto convinto che Matteo B. Bianchi abbia davvero raggiunto quella distanza, la distanza sufficiente a raccontare questo dolore. Il coinvolgimento c’è ancora, impossibile sbiadirlo, ridurlo. Nonostante questo però il testo è pressoché scevro da enfatizzazioni melodrammatiche e concetti cliché, ed è qui che risiede la sincerità che ho apprezzato. Un libro che credo abbia aiutato l’autore e che, nell’anonimato del dolore da lui stesso evocato, possa essere di conforto a chi ha subito un lutto del genere. 
Una speranza di ritrovare una luce, un senso alle cose e alla propria esistenza.

Resi noti i dodici libri candidati al Premio Strega 2023: ecco i nomi

Delle ottanta opere presentate quest’anno dagli Amici della domenica, il Comitato direttivo del Premio ha decretato i 12 candidati per l’edizione 2023. Ecco i libri selezionati. 

  1. Silvia BallestraLa Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza), presentato da Giuseppe Antonelli.
  2. Maria Grazia CalandroneDove non mi hai portata (Einaudi), presentato da Franco Buffoni.
  3. Andrea CanobbioLa traversata notturna (La nave di Teseo), presentato da Elisabetta Rasy.
  4. Ada D’AdamoCome d’aria (Elliot), presentato da Elena Stancanelli.
  5. Gian Marco GriffiFerrovie del Messico (Laurana Editore), presentato da Alessandro Barbero.
  6. Vincenzo LatronicoLe perfezioni (Bompiani), presentato da Simonetta Sciandivasci.
  7. Romana PetriRubare la notte (Mondadori), presentato da Teresa Ciabatti.
  8. Rosella PostorinoMi limitavo ad amare te (Feltrinelli), presentato da Nicola Lagioia.
  9. Igiaba ScegoCassandra a Mogadiscio (Bompiani), presentato da Jhumpa Lahiri.
  10. Andrea TarabbiaIl continente bianco (Bollati Boringhieri), presentato da Daria Bignardi.
  11. Maddalena Vaglio TanetTornare dal bosco (Marsilio), presentato da Lia Levi.Carmen VerdeUna minima infelicità (Neri Pozza), presentato da Leonardo Colombati.

La definizione di “narrativa”, spiega Melania G. Mazzucco, Presidente del Premio, è ormai molto ampia, romanzi e racconti non sono più il genere prevalente, insidiati da biografie, autobiografie, memorie, non-fiction e diari. Se lo scorso anno le opere erano state scritte nell’isolamento della pandemia, e questo aveva favorito l’utilizzo di toni intimi e autoconfessioni, adesso emerge il senso post traumatico nel quale gli autori sono portati a indagare il trauma; privato, personale, a volte segreto e indicibile, ma anche pubblico, storico e collettivo. Temi ricorrenti sono infatti la morte, la perdita, la malattia e l’elaborazione del lutto, l’ospedale come spazio narrativo ricorrente. Corpo dell’individuo e paesaggio della nazione sono ugualmente minacciati e aggrediti dalla rovina, altro tema ricorrente è infatti l’epicedio per il paesaggio italiano e per la cultura rurale; l’Italia ritratta in questi libri è un paese ferito e ammalato. 
C’è un segno positivo, però, ed è la fiducia nella letteratura come medicina e come cura. 

Il Comitato direttivo è composto da Melania G. Mazzucco, Pietro Abate, Giuseppe D’Avino, Valeria Della Valle, Ernesto Ferrero, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Dacia Maraini, Gabriele Pedullà, Stefano Petrocchi, Marino Sinibaldi, Antonio Scurati e Giovanni Solimine). I libri candidati saranno letti e votati da una giuria composta da 660 elementi e ai voti degli Amici della domenica si aggiungeranno quelli di studiosi, traduttori e appassionati di letteratura. La proclamazione degli autori finalisti si terrà mercoledì 7 giugno al Teatro Romano di Benevento, alla presenza dei dodici candidati e del pubblico, mentre l’elezione del vincitore si svolgerà giovedì 6 luglio alMuseo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e, anche quest’anno, la premiazione sarà trasmessa in diretta Rai. 

“Sillabario all’incontrario”, di Ezio Sinigaglia | Recensione

Candidato al Premio Strega 2023, Sillabario all’incontrario (TerraRossa Edizioni) è frutto del valore terapeutico della scrittura. Un libro che non vuole essere catalogato, una miscellanea tra autobiografia, autoanalisi, saggio e diario con una dichiarata – ma appena accennata – ispirazione al romanzo giallo. 
Durante un malessere di natura psicologica, una depressione o qualcosa di simile, tra il 1996 e il 1997 Ezio Sinigaglia si ritira lontano dal caos cittadino e dalla frenesia moderna, con lo scopo di ritrovare i tempi e i luoghi a lui più congeniali. Fitti di gatti, ricordi e vegetazione. La Sardegna, luogo in cui ha vissuto quasi vent’anni, che ha cambiato il suo approccio con la natura e ha posto le basi per il suo amore verso le piante come vive portatrici di bellezza. 
Alla lettera G come giallo si legge: 

Una delle mie maggiori fonti di allegrezza, da quando vivo in Sardegna, è la reperibilità immancabile del giallo: il mio sguardo assetato di sole, nelle giornate grigie, cerca il giallo, e qui lo trova sempre: la mimosa, l’euforbia, la ginestra, le margherite di campo che, fra maggio e giugno, rivestono enormi estensioni di paesaggio, senza fine, come una neve gialla: solo, sgargiante, fin troppo vistoso, un papavero, ogni mille passi, fiammeggiante e sfrontato come un assassino: lo stesso contrasto fra giallo e rosso si può apprezzare d’autunno nel corbezzolo: i fiori del corbezzolo sono insignificanti, ma i frutti sono una delle meraviglie più fanciullesche del creato: in questa stagione, a metà novembre, il corbezzolo sembra perpetuamente addobbato per una festicciola di bambini…

La singolarità del libro sta nella struttura, l’impianto. È in effetti un vero e proprio sillabario, segmentato, frammentato, scisso in tasselli nominalmente indicati da lettere – Z come zoo, H come humor –, pretesti narrativi che si traducono in racconti, scansioni temporali e tematiche utilizzate per raccontare (raccontarsi) e analizzare la propria condizione.

Quando il libro è stato scritto, Sinigaglia era ancora un autore non pubblicato e la lettera I, per esempio, è dedicata a questo: I come inedito

Ecco un buon punto di vista sotto il quale osservarmi: l’insuccesso. un cinquantenne d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla, come se il suo stato civile fosse una certificazione d’infelicità ufficiale, che rendeva superflua ogni ulteriore indagine: così di me si presume ch’io soffra segretamente del mio anonimato e della mancata pubblicazione, nonché dei miei romanzi, delle relative recensioni encomiastiche su riviste e quotidiani: mentre io soffro di tutt’altro, e in misura assai più lieve, assai più innocua per il fegato di quanto si presuma: e assai più dannosa, invece, per il cuore.

Una raccolta di pensieri esposti (e disposti) con ordine, e per mezzo della consueta eleganza stilistica a cui l’autore ci ha abituato. Tuttavia il libro “non è la traduzione in prosa di un progetto narrativo”, ci fa sapere dalle pagine del libro, e noi gli crediamo, perché non è importante conoscere la verità ma riconoscere quello che arriva. Schivando lo humor e le trovate metanarrative, l’amore per le arti, le citazioni e i termini vicini al classico, si percepisce una sofferenza di fondo, l’urgenza di superare un momento. L’inadeguatezza a un mondo che corre tutt’intorno e lontano, un senso di innato spaesamento. 

Un’autoanalisi, quando resa pubblica, ha in sé qualcosa di molto coraggioso, perché, al di là della sana necessità di nascondere qualcosa, ci si spoglia davanti al mondo. Ci vuole coraggio. Ci vuole coraggio anche a presentarla così, scardinando con garbo i canoni estetici letterari, la struttura e la sintassi con una complessa profusione di due punti e l’assenza pressoché totale di punti a capo. Sinigaglia vuole portare con sé il lettore, dentro di sé, ma alle sue condizioni, e il lettore non può che docilmente seguirlo. 

Sillabario all’incontrario è la testimonianza di un amore per la letteratura. Un amore smisurato e incondizionato, che potremmo definire agape, in cui l’autore si rifugia per indagare la causa del suo malessere e cercare di guarirne. Come il detective protagonista di un giallo, per trovare il colpevole deve necessariamente avvicinarglisi, capirlo, e per farlo è costretto a scavalcare il muro (o il canale d’acqua) che li separa, passando dalla sua parte, sfiorandone il lato oscuro. Come in ogni buon giallo, la fine è nota ma bisogna risalire all’origine per trovare la causa. Così, in questo gioco a ritroso, nell’ultima parte del libro Sinigaglia apre le porte alla propria intimità, spingendosi indietro negli anni fino all’infanzia, alle prime scoperte erotiche e alle ultime esperienze di strada che rivive ed esplora, in modo intimo, ma al contempo facendone affiorare l’universalità.

Pensieri e argomentazioni di natura profonda resi in maniera mai troppo seriosa, divagazioni letterarie per il gusto di spaziare e per l’amore del mezzo, la letteratura, appunto. E anche se il colpevole del malessere, al termine del libro, non si troverà, l’autore/narratore raggiungerà l’agognata guarigione. Era questa, sin dall’inizio, la cosa più importante. 

L’equilibrio delle lucciole, di Valeria Tron | Recensione 

Adelaide è una donna con una storia sentimentale agli sgoccioli, che torna al paese d’origine (in Val Germanasca, poco sopra Torino) alla riscoperta delle proprie radici, in cerca di una riconciliazione con se stessa. Qui incontra l’anziana Nanà, custode simbolica della casa delle memorie, che si prenderà cura di lei. Tra le due si crea un contatto di fiducia, che porta Nanà a consegnare le chiavi di una stanza in che custodisce ogni genere di oggetti. Ognuno di essi racconta storie di vite passate e Adelaide si tuffa in una memoria corale e generativa fatta di esistenze, voci, guerre e amori, per ritrovare la bellezza e l’equilibrio nella propria vita. A lei il compito di rianimare la fiamma imprescindibile del ricordo.

Le lucciole. 
L’equilibrio delle lucciole parla di una trasformazione dell’interiorità che ricorda la metamorfosi della lucciola. Che vive per anni nel suo bozzolo e infine esce con la luce. Per l’autrice Valeria Tron, a volte, ci si sente bloccati e non si riesce a mostrare la propria luminosità, ma compiere una metamorfosi interiore permette di illuminare la propria vita e quella degli altri. Di ritrovare il proprio centro. Seguendo poi una visione pasoliniana, esistono persone vicine alla terra che sono già lucciole, ma non hanno la possibilità di brillare in un mondo assuefatto al bombardamento mediatico. Compito della società odierna sarebbe anche quello di dare loro un luogo in un cui esprimersi e la possibilità di farlo. Brillare, appunto. 

Frammenti.
La narrazione è costituita da una trama principale e numerose sottotrame, frammenti e immagini del passato, storie evocate dagli oggetti ritrovati e dai racconti di Nanà. 

Stile e lingua.
Un elemento caratteristico della narrazione è il patois, la lingua parlata in questa valle, a metà strada tra il francese e il piemontese, usata dai personaggi, Nanà su tutti. Questa lingua colloca geograficamente il racconto e lo caratterizza in maniera singolare, dato anche il suo andamento melodico e la dolcezza del suono. 
Lo stile linguistico è forse la caratteristica di maggior impatto del romanzo. Una scrittura evocativa e poetica, che deriva forse anche dall’attività cantautoriale di Valeria Tron, in cui spicca l’amore per l’immagine poetica, per la metafora, per l’accostamento ardito tra sostantivo e aggettivo e verbo, e per il portamento musicale della frase. 

Così non posso che perdermi e ritrovarmi in ogni segno che, seppur piccolo, diventa direzione e ritorno. 

Le uniche perplessità, forse, potrebbero scaturire proprio da questo. Dallo stile che, alla costante ricerca di immagini evocative e di gusto poetico, non sempre pone la prosa al servizio della trama. A volte, come può capitare a un cavallo che avanza al trotto – a un’andatura sostenuta ma estremamente elegante – che “rompe” e scatta al galoppo, l’autrice si perde in evoluzioni stilistiche un po’ fini a se stesse. Elucubrazioni intimistiche e osservazioni personali che irrompono nella storia e risultano eccessive.
Si veda questo accenno alla colazione.

Livello il burro su una galletta e poi composta di lamponi. È la colazione di ogni giorno anche a valle; più che un rito è un moto nostalgico verso casa, serve a direzionare i sensi al risveglio. Si torna alla propria radice come si può. La mia è questa e la porto entro confini del mio corpo: il cuore dell’uomo è ciò che ci è dato in custodia, la forma del corpo è l’area del giardino.

La narrazione di Tron, che per sua conformazione non è mai veloce, in questi momenti si dilata a dismisura e rallenta ulteriormente fino quasi a fermarsi; il lettore può rimanerne spiazzato. 
Così come non sempre sono comprensibili le motivazioni per i cambi di registro linguistico, che finiscono per stonare, per creare dissonanze con il resto del testo. 
Si passa da frasi di registro alto, aulico, lirico, di questo tipo:

Serve un moto di felicità che lo riporti nella sua tregua neutrale, dove le guerre non servono più a fare della strada di casa un sogno potente.

Oppure: 

La condensa di Dio che avverto in questo spazio mediano di superficie e che intride ogni cosa. 

Ad altre frasi, poco dopo, decisamente di altro taglio. 

Che bar Tricot aspettasse le sue vittime sui tre scalini e l’orario fosse quello del primo pomeriggio, dopo il riposino o il caffè corretto Stravecchia, lo sapevano anche i muri. 

L’equilibrio delle lucciole è certamente un libro interessante, un viaggio tra memorie e atmosfere, di ricerca nel passato per ricostruire il presente e ritrovare, con speranza e rispetto, la bellezza. Adatto a persone sensibili e gelose dei propri ricordi, che cercano una via nuova o di sistemare la vecchia.

“Nessun luogo è lontano”: al via Book Pride Milano 2023, dal 10 al 12 marzo

Con il tema “Nessun luogo è lontano” e Marco Amerighi e Laura Pezzino come curatori della manifestazione, la fiera nazionale dell’editoria indipendente italiana torna a Milano dal 10 al 12 marzo 2023 per la VII edizione.  
Dopo mesi di distacco sociale, la scelta del tema vuole ricordare che ciò che avviene su questo pianeta riguarda ognuno di noi, che il “diverso” non è altro che una parte del “noi” e che nessun luogo è davvero lontano.  
Anche quest’anno la fiera si svolgerà all’interno di Superstudio Maxi, ex industria siderurgica del quartiere Famagosta, con l’obiettivo di favorire il dialogo tra centri e periferie. Molte le iniziative durante i tre giorni di fiera, momenti di aggregazione e riflessione con presentazioni, spettacoli, concerti e reading poetici.  

QUATTRO PERCORSI 
Mappe, Rifugi, Fughe e Visioni saranno i percorsi all’interno di Book Pride, con il proposito di trasformarla da fiera editoriale a osservatorio, per orientarsi nel presente. 

Mappe. Un invito a uscire e, superando timori e smarrimenti, compiere i primi passi nel mondo che ci circonda. Per analizzare e capire lo spazio e il tempo presente. 
Nel percorso troveranno spazio le voci del panorama italiano esordiente. Gli autori accompagneranno i lettori in percorsi urbani e passeggiate letterarie, mappando i territori meno battuti e le loro storie. 

Rifugi. Esistono luoghi considerati lontani, emotivamente e culturalmente. Vederli è un atto di resistenza, amore e protezione. In questa sezione, verrà data voce alle realtà meno osservate: le carceri, i centri di accoglienza per migranti, le associazioni contro la violenza di genere, gli ospedali e le fabbriche. La letteratura working class contemporanea, che mai come in questi anni è diventata strumento di analisi e comprensione delle contraddizioni della società che ci circonda. 

Fughe. Nonostante precauzioni e accortezze, capita di uscire dalle strade battute. Al centro di questa sezione saranno la letteratura di guerra, la geopolitica, le voci di scrittori in esilio e di chi si è trovato a usare altre lingue per vivere e lavorare. Saranno ospitati incontri sul crescente fenomeno dell’abbandono scolastico tra gli adolescenti, la fuga all’estero dei nuovi poveri e su chi, specie dopo la pandemia, ha scelto di lasciare la grande città per ricominciare in provincia. 

Visioni. Ispirati dalle prime immagini spaziali del telescopio Webb, che fa riflettere su passato inedito e un futuro indefinito, l’ultima sezione ospiterà scrittori, scienziati, divulgatori che ogni giorno lavorano alla creazione delle fondamenta per un futuro più sostenibile. Con lo scopo di guardare il più lontano possibile, tra scenari catastrofici e progetti di rinascita, il dialogo coinvolgerà le nuove generazioni, in prima linea per un futuro nel rispetto del pianeta.  

BOOK PRIDE è promossa da Adei, Associazione degli editori indipendenti, e dalla Associazione Book Pride ed è organizzata da Book Services. La manifestazione rappresenta l’editoria indipendente italiana, un patrimonio culturale unico al mondo con quasi il 50% del valore del mercato del libro.  

Info:  Book Pride
02 289515424 – segreteria@bookpride.net  

Jack London, uno sguardo sulla vita e sullo stile letterario

È complicato parlare di Jack London e della sua scrittura senza accennare alla sua vita che, notevole e certamente non comune, influisce in maniere ineludibile sulla sua scrittura, dai temi trattati al modo di raccontare le sue storie.
Tempo fa era considerato un classico autore per ragazzi, insieme a Robert Louis Stevenson e Rudyard Kipling, suoi predecessori, con i loro romanzi avventurosi. I suoi libri forse più famosi – Il richiamo della foresta e Zanna bianca – hanno in comune il punto di vista di un animale, un cane. Forse per questo, con opportune “riduzioni”, come le chiamavano all’epoca, alle scuole medie i libri erano tra le scelte della biblioteca scolastica. Riduzioni, tagli che alleggerivano il peso fisico del libro e le parti meno adatte ai più giovani. Soprattutto le scene violente. 
Non che questo ne sminuirebbe il valore, ma Jack London è stato anche molto altro, oltre che un autore per ragazzi. La sua letteratura è apprezzata a livello mondiale da un pubblico ben più adulto di quello a cui era destinato, e rispecchia il modello esistenziale multiforme di London. In essa possiamo leggervi la sua vita, errabonda come lui, e comprende romanzi, saggi, articoli, poemi e racconti, delle più svariate tematiche.
Coerente con il suo motto  – esci e vivi esperienze autentiche, che sfidano e cambiano la vita, e scrivi su di esse –, London, come le sue storie, è stato molte cose: vagabondo senza tetto, pirata (ladro) di ostriche, corrispondente e fotoreporter di guerra in Manciuria nel conflitto russo-giapponese, proprietario di un ranch, bidello, cercatore d’oro, velista, marinaio e socialista militante.

Una vita pregna che influenza la scrittura.
Quando London nasce, nel 1876, gli Stati Uniti hanno solo cento anni (è l’anno della Battaglia diLittle Bighorn, per intenderci) e in questo senso si può affermare che l’autore cresce insieme all’America moderna. È il periodo in cui milioni di persone vi si trasferiscono, in cui si sviluppa l’architettura verticale, i grattacieli, per ottenere una maggiore capienza su aree meno estese. La produzione industriale ha un’impennata storica, e industriali e banche la fanno da padrone. 

Jack London nasce a San Francisco, in un contesto sociale molto povero, il sottoproletariato, e la sua vita, almeno fino ai vent’anni, è piuttosto faticosa, disorganica e capricciosa.
Appena rimasta incinta, la madre, che di lavoro fa la cartomante, è abbandonata dal padre di Jack, e tenta prima di abortire e poi di spararsi in testa, pur di non dare alla luce il figlio. Jack cresce in un contesto di povertà, di rinunce, e privo di affetto; la madre lo chiama “il marchio della mia vergogna” e lui non conoscerà mai suo padre. 
Jack passa da un mestiere a un altro e a 14 anni lascia la scuola per lavorare in un conservificio – oltre un milione e mezzo di bambini si trova nella sua situazione, la regolamentazione del lavoro minorile arriverà solo nel 1938.

Nel 1893 si imbarca su una nave per la caccia alle foche e al ritorno, per partecipare a un concorso del quotidiano The San Francisco Call scrive il suo primo racconto: “Storia di un tifone al largo del Giappone”(Typhoon Off the Coast of Japan), raccontando di una tempesta realmente vissuta durante quel viaggio. 
Dopo un arresto per vagabondaggio e dopo aver frequentato le peggiori compagnie della società, London decide finalmente di voler migliorare il suo stato ed emergere dal “decimo sommerso”, quel submerged tenth teorizzato da William Booth. È in questo periodo che frequenta l’High School – fa il bidello per pagarsi la retta – e ha la possibilità di attingere a volumi di filosofi quali Karl Marx, Herbert Spencer e Charles Darwin, rendendosi conto che “altre menti più grandi di me avevano elaborato ciò che io solo pensavo”. Erano i principi del socialismo, partito al quale si iscrisse e in cui militò attivamente tenendo diversi discorsi politici a Oakland (CA). Nel 1896 entra alla Barkley University ma lascia dopo soli sei mesi: è iniziata la corsa all’oro, e lui parte per il Klondike.

Jack London e sua moglie Charmian in viaggio per le Hawaii.

Tralasciamo in questa sede il racconto del resto della sua vita per concentrarci sui fatti più significativi nel contribuire a formare le caratteristiche del suo modo di scrivere e conferirgli quella voce nuova e quel suo modo diverso di vedere le cose che apriranno una breccia d’entusiasmo del pubblico e della critica.

Un’infanzia priva di certezze, tra bettole e ladri, a sgomitare per un pezzo di pane, a lavorare bambino, in cui l’unico svago era la lettura – una letteratura per ragazzi, d’avventura. Le pulsioni dettate dal più basso istinto di sopravvivenza da una parte e un fortissimo desiderio di rivalsadall’altra. Rivalsa sociale, ma soprattutto economica. Perché Jack London era sì socialista, ma non disdegnava le possibilità che il denaro poteva offrire. 
Tra il 1900 e il 1916 ha scritto più di 50 romanzi, centinaia di racconti e innumerevoli articoli. Impossibile qui, in poche righe, trattare di tutta la sua produzione. Prendiamo come esempio significativo il romanzo che è considerato il suo capolavoro. 

THE CALL OF THE WILD – Il richiamo della foresta. 
Come accennato, alla fine dell’ottocento in Alaska era iniziata la corsa all’oro – la Gold Rush. E Jack London, sempre desideroso di nuove esperienze (e dei soldi che in caso positivo l’impresa avrebbe procurato), è partito per quel viaggio infernale. Al ritorno, carico di tutte le esperienze vissute, ha scritto il romanzo. Era il 1903 e aveva 27 anni, e in questo testo ha forse riversato la storia della vita che fin lì aveva vissuto. 
Buck, il protagonista, è un cane dai pensieri umanizzati che passa da uno stadio di cattività civile a uno di libertà selvatica. Un narratore che scopre il mondo palmo dopo palmo, esperienza dopo esperienza. 

Cercavano cani robusti, dal pelo folto per proteggersi dal freddo siderale del grande Nord. Buck, pur essendo un cane domestico che viveva nella grande e assolata proprietà del Giudice Miller, era adattissimo per lo scopo.
Rubato, infagottato e portato lassù, Buck si trova a vivere un’esperienza inaspettata e ferocemente dura. Viene messo a tirare le slitte dei cercatori d’oro, uomini disperati nella cui personalissima scala di valori gli scrupoli verso gli animali vengono molto dopo il sostentamento minimo vitale e la realizzazione del proprio obiettivo. 
Iniziano per Buck giorni di sofferenza, di lotte, di botte, di fame. Impara la legge del bastone, per cui è l’uomo che comanda, finché ha il bastone. La legge del branco, mordi o sarai morso. E in questo allontanamento dalla civiltà, dai valori a cui era abituato nella società civile – dell’uomo – inizia a riscoprire ciò che le abitudini di quella società gli avevano fatto addormentare dentro: l’istinto. Un cammino di consapevolezza che lo porta a confrontarsi con la sua reale natura ancestrale. 
Eccolo, il richiamo della foresta. 

La prima edizione del libro del 1903.

Il richiamo. 
Il richiamo della foresta in originale è “the call of the wild”, dove wilderness rappresenta molto di più che “selvaggio” o “foresta”. Per wilderness si intende un’area selvaggia, incontaminata, lontana dalla traccia umana, che al suo interno possiede e sviluppa vita e comunità. Non esiste un vocabolo italiano che ne renda alla perfezione il significato. Il wilderness non rappresenta solo la potenza e la purezza della natura, ma una dimensione di valori ancestrali e spirituali, di ricordi di esistenze primigenie altre dalla nostra. È il concetto chiave che distingue le origini dell’idea americana di natura, alla base del pensiero di autori naturalisti come Harry David Thoreau, Peter Henry Emerson e Walt Whitman.
E Jack London, ovviamente. 

Nel romanzo i fatti sono riportati in maniera asciutta, precisa, scientifica, e pregi e difetti dei personaggi sono determinati dalla natura, essendo costretti a obbedire ai bisogni che la natura spietata impone. Dal primario bisogno di sussistenza al riscaldamento. La legge del più forte, della supremazia. Uccidi o sarai ucciso, mangia o sarai mangiato. Per queste caratteristiche e per la descrizione immediata, London è considerato un autore appartenente alla corrente del naturalismo americano, che è prosecutrice di quel naturalismo francese di cui Émile Zola si fa portavoce e che in Italia trova eco nel Verismo.

In alcuni momenti la sua prosa si fa alta, altissima, a raggiungere in un guizzo le vette dell’high literature, con immagini metafisiche che affiancandosi a ritratti realistici e pulsanti di vita, donano al testo una straordinaria potenza visiva ed emozionale, attraverso una poetica fatta di odori, suoni e sensazioni che entrano nella pelle come la natura che ci circonda.

C’è un’estasi che segna il culmine e, al tempo stesso, il limite della vita; e questo è l’assurdo, che l’estasi è insieme massima vitalità e oblio totale. Questa estasi, questo oblio della vita coglie l’artista, lo rapisce e lo trascina fuori di sé, in una vampa di fuoco; coglie il soldato ebbro di guerra sul campo di battaglia, nella lotta senza quartiere; e colse Buck che alla testa del branco levava l’antico urlo del lupo, teso a raggiungere quel cibo vivo che fuggiva velocemente dinanzi a lui nella luce lunare. Scopriva gli abissi della propria natura, la parte più profonda dei suoi istinti, risalendo fino al grembo del tempo. Lo dominava l’impeto della vita, la marea dell’essere, la gioia perfetta di ogni muscolo, di ogni giuntura, di ogni tendine, poiché questo era il contrario della morte, era ardore e violenza, si esprimeva nel movimento, nello sfrecciare esultante sotto le stelle e sopra le cose morte e immobili.
(Jack London, Il richiamo della foresta; trad. Davide Sapienza).

Quanto è vicino a quel Thoreau, citato anche nel film L’attimo fuggente:

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
(Harry David Thoreau, Walden, vita nel bosco).

Il romanzo parla della Natura. Natura matrigna. Del primordiale. Parla di istinti, di virtù, di basse pulsioni, di avidità e collera, di fame e d’amore. Di un percorso catartico, di ricerca interiore. Riduttivo giudicarlo un libro per ragazzi o di avventura. È un testo in cui ognuno di noi può trovare la sua lotta interiore, il suo viaggio, la sua personale Odissea, le ingiustizie e i contrasti che ogni giorno sono posti sul suo cammino. E se stesso.

Serve davvero partecipare ai concorsi letterari? Ecco qualche dritta

È una domanda che mi viene posta di frequente dagli autori con cui collaboro. Oltre a quelle più specifiche, tipo: “Ho sentito che i concorsi a pagamento sono tutti degli imbrogli e quelli gratuiti non servono a nulla. È vero?”
Per rispondere è necessario fare un po’ di chiarezza. Partiamo da questa domanda: 

Cosa mi aspetto (come autore) da un concorso letterario?

Il concorso letterario può interessare l’autore sotto diversi aspetti. Può servirgli per farsi conoscere dagli addetti ai lavori, per mettersi in gioco ed essere giudicato da una giuria (ci si auspica) competente, per avere una risposta (quando non un vero e proprio giudizio) sul proprio lavoro, per guadagnare il premio in denaro in palio, o ancora per aggiungere una targhetta, una tacca che arricchisca lil suo curriculum quando lo presenterà insieme al suo manoscritto. 

A cosa serve un concorso letterario a chi lo organizza? 

A trovare nuovi talenti letterari, e (a volte) a raggranellare qualche soldo. 

Un’opportuna distinzione. 

Comprendendo l’obiettivo che si pone chi li organizza, si può iniziare a capire come distinguere quelli validi nello sterminato sbocciare di concorsi letterari.
Va detto che, come in ogni ambito della vita, anche in questo esistono buoni e cattivi, ciarlatani e professionisti e infinite sfumature. Non si scappa, ciarlatani e mezzo truffatori se ne trovano a iosa. Si trova anche chi in buona fede propone concorsi la cui partecipazione da parte di un autore è completamente inutile, perché chi lo indice non ha contatti, non fa nemmeno parte dell’ambito letterario, talvolta. C’è anche chi, oltre alle ultime caratteristiche di inutilità, aggiunge il carico economico di una quota di iscrizione, spesso ingiustificato. Esistono inoltre concorsi che servono alle piccole case editrici (che non ricevono abbastanza manoscritti perché appunto piccole o non conosciute) di avere una possibilità di scelta in più e nel contempo di accrescere il loro prestigio. Questi elencati finora sono i concorsi da guardare con diffidenza. A quali partecipare? Ne parliamo dopo. 

Ora, visto che partecipare a un concorso equivale per l’autore a stipulare un accordo di fiducia con chi lo organizza, come capire di chi fidarsi?

Come scegliere il concorso letterario.

Per distinguere il concorso utile da quello inutile, se non dannoso, è necessario basarsi su alcuni punti chiave. Il bando è il primo. Nel bando di iscrizione si capisce (o si dovrebbe capire) chi lo organizza, quanto costa, come vengono giudicati gli elaborati, da chi è composta la giuria, la data ultima di consegna del manoscritto e i premi in palio. 
Queste sole informazioni potrebbero bastare a spostare la vostra lancetta dal + al – o viceversa. 

Internet è ancora una risorsa sconfinata per ricavare informazioni. Provate a cercare i vincitori delle ultime edizioni del concorso che vi interessa. Se qualcuno di questi ha pubblicato con grandi case editrici, c’è il rischio che il concorso sia davvero valido, anche se, ahimè, potrebbe richiedere una quota di iscrizione. 
Premi nazionali importanti e di conclamate autorevolezza e onestà richiedono quote, anche piuttosto alte. Ma magari c’è un comitato di lettura che si occupa, oltre che appunto di leggerle, di valutare le opere ricevute, e di fornire una risposta professionale a ogni partecipante. Questo richiede dei costi. 

Chi dice che i concorsi non servono dice una verità molto parziale: a lui/lei magari non servono, ad altri autori che adesso pubblicano per grandi case editrici sono serviti eccome. 

I concorsi servono eccome. 

Inutile specificare “quelli seri”, abbiamo capito come distinguerli. Parte dell’attività di scouting da parte di agenti letterari, scout e editori, si basa sui concorsi letterari. Provate a contattare un finalista del Premio Calvino il giorno dopo che sono stati proclamati e pubblicati i nomi dei finalisti sul sito e capirete di cosa parlo: saranno già stati contattati da qualcun altro, prima. Scout, editore o agente che sia. 
Questo perché la giuria di un concorso di qualità fa già una prima e poderosa cernita tra i manoscritti arrivati e, per chi deve trovare talenti da pubblicare, è tutto lavoro in meno e (quasi) garanzia di qualità del testo. 

Il concorso Urania, dedicato al romanzo fantascientifico, o il premio Tedeschi, per quanto riguarda il giallo, sono concorsi da cui gli editor di Mondadori attingono a piene mani per la ricerca di nuovi talenti. E un talento può non essere solo il primo classificato.
Lo stesso discorso vale per i concorsi dedicati al racconto, visti sempre con attenzione dagli scout delle case editrici. 

In conclusione, serve o non serve partecipare ai concorsi?

Certamente sì, purché siano seri (vedi sopra). Avere l’apertura mentale di mettersi in gioco, di accettare piccole sconfitte in base alle quali individuare e procedere per la strada giusta è un’ottima qualità per chi voglia intraprendere seriamente il mestiere di scrivere. Anche quando bisogna spendere qualcosa per iscriversi? L’ho scritto prima, adesso avete i mezzi per valutarli da soli, di volta in volta. Se ne vale la pena e ne avete la possibilità, buttatevi! Fa parte di quell’investimento che state facendo su di voi e sulla vostra carriera di scrittori.

Le testimonianze

Concludo con due testimonianze significative, perché illuminano aspetti della questione che non ho menzionato.

P., giurato di un concorso letterario – che desidera rimanere anonimo:
Sono membro di un premio da dieci anni. Premio farlocco e inutile, imbarazzante vessillo di un mondo parallelo di sconosciuti famosi solo fra loro (quasi la Spectre dei deboli). In tal senso, inquietante. Ma la gente piange, si commuove, come direbbe Montale “anche noi poveri abbiamo la nostra parte di ricchezza, ed è l’odore dei limoni”.
Ci sono vedove, orfani, gente sola, che per cinque minuti si sente amata.
Solo per questo non ho abbandonato subito il perverso gioco della Giuria (a pagamento!).

Patrizia Scialoni, autrice e assidua frequentatrice di concorsi letterari:
Raggiungere la finale o il podio è fonte di grande soddisfazione, in primo luogo perché conferma il fatto che sto lavorando nella direzione giusta, che quello che scrivo (sia una storia d’amore o d’orrore) arriva.
Con i concorsi e il livello di gradimento che ottengo, misuro in sostanza la mia capacità di emozionare e arrivare al lettore: trovo che siano una palestra eccezionale e la consiglio a tutti.
La soddisfazione personale per aver portato a termine un buon lavoro fa sempre molto piacere, diciamolo.
Per i concorsi maggiori sto affilando le unghie… Vincere i concorsi, anche se nell’immediato non aumenta le vendite dei miei libri, aiuta a creare interesse nei miei confronti e questa è sempre una buona cosa essendo una perfetta sconosciuta.


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“Sotto la pelle”, di Michel Faber | Recensione

ALLARME SPOILER.
Se avete in programma di leggere Sotto la pelle evitate questa recensione. Vi rovinereste (vi rovinerei, prendiamoci le nostre responsabilità!) la lettura. Tornateci una volta che lo avrete letto o andate avanti se non avete intenzione di farlo. Uomo avvisato.
A mia discolpa posso dire che è molto difficile (e piuttosto inutile) parlare del libro, di questo libro, senza svelarlo. 

La trama è piuttosto semplice. 
Isserley raccoglie autostoppisti sulla A9, una statale poco trafficata nelle Highland scozzesi. Indossa un’ampia scollatura, ha un seno importante ma – a detta di chi raccoglie per la strada – non una grande bellezza, con tutte quelle cicatrici sul viso. Inizia a parlare con loro, li intrattiene, ne capta le informazioni che le servono per sapere se procedere o meno con il suo lavoro e, se la persona agganciata risponde a una serie di caratteristiche, fa scattare due aghi da sotto il sedile del passeggero. Due aghi che spruzzano veleno. Tramortito, il malcapitato sarà portato presso la farm, dove si procederà al resto dell’attività. 
Isserley è un’aliena, che cattura Vodsel (uomini) per farne carne da mandare al suo pianeta. In cambio, l’azienda produttrice di carni Vess Incorporated le fornisce un tetto e il sostentamento quotidiano.

Il romanzo si apre con Isserley già in macchina pronta a raccogliere il primo autostoppista, e dalle prime battute non lo diresti un romanzo di fantascienza. Il piano narrativo è reale, persone vere, strade poco trafficate, cielo grigio, Scopriremo solo più avanti che non tutto è come sembra. 

Le trovate più riuscite sono, appunto, questi capovolgimenti basati su fraintendimenti semantici.
Mi spiego. Leggi Isserley e immagini una donna, leggi umani e intendi i bipedi che popolano la terra, leggi nave cargo e immagini un transatlantico. Invece no perché, sottilmente giocato, il filo narrativo porta volutamente il nostro cervello a interpretare erroneamente i dati forniti, attraverso la logica cognitiva che ci accompagna dalla nascita: l’essere umano sta in piedi e non ha la pelliccia, per esempio. Solo a metà del romanzo veniamo a conoscenza del fatto che quelli in esso citati come “esseri umani” sono (per noi terrestri) alieni, hanno la coda, sono quadrupedi e coperti di pelliccia. E la nave non va per mari, ma per cieli (astronave, diremmo noi terrestri). E Isserley è una di queste bestie (a cui, per motivi professionali, viene praticato ogni tipo di chirurgia estetica – dall’amputazione della coda e del sesto dito alla protesi al seno – con lo scopo di renderla più possibile somigliante a un vodsel). 
È un romanzo fantascientifico molto vicino al reale, anche per l’intento dell’autore di giocare con questo tipo di fraintendimenti e depistaggi. Un esempio:

Quando avvistava un autostoppista per la prima volta Isserley non si fermava mai, si concedeva un po’ di tempo per prendergli le misure. Quel che cercava erano i muscoli: un pezzo d’uomo ben piantato sulle gambe. Di esemplari gracili, pelle e ossa, non se ne faceva nulla.

Questo è l’incipit. Poi prosegue, racconta di Isserley che, da sola, adesca uomini stazzati incantandoli con la vista del suo prosperoso seno in bella evidenza. Il lettore è incuriosito e indotto a pensare che si tratti magari di una prostituta, visto che si parla di una cosa quotidiana, oppure di una donna di grandi e inappagati appetiti sessuali… Nessuno può immaginare che quel seno sia frutto di chirurgia aliena. 

Il depistaggio è una delle chiavi narrative più forti nel romanzo, un gioco che tollero poco, quando è esasperato. In Sotto la pelle non lo è, mantiene il giusto equilibrio e risulta se mai interessante e coinvolgente. 

Un altro aspetto efficace del testo è la narrazione in terza persona con focalizzazione interna alternata. Per esempio, quando la protagonista raccoglie un autostoppista, vediamo il suo punto di vista, recepiamo le sue prime impressioni e le sue aspettative, le sue preoccupazioni. Poi il punto di vista si ribalta in maniera chiara – forse anche troppo, con uno spazio paragrafo a evidenziarla – ed è il passeggero a vivere le proprie emozioni, a sciorinare i propri pensieri e, spesso, le sue intenzioni, non sempre pacifiche. 

È interessante lo scambio di percezioni in sé, ed è inoltre efficace in termini narrativi perché mantiene sospeso il lettore nell’incertezza delle intenzioni dell’uno e dell’altro personaggio. 

Ciò che invece stona, a mio avviso, è lo stile letterario, che ho trovato spurio e poco consapevole. In una parola, acerbo. 
Se i primissimi capitoli funzionano – parti narrative, avvenimenti, successione di fatti in tempo reale – quando il romanzo entra in una fase meno dinamica, più introspettiva, quando cioè il gioco si fa duro, i limiti della scrittura si fanno sentire. Queste parti si dilungano in considerazioni e osservazioni piuttosto sterili e un po’ troppo basiche per essere interessanti, e in dialoghi deboli. Molto deboli. Ci sono, in pratica, molti degli errori più frequenti che segnalo agli autori di cui revisiono i testi in fase di editing (ho scritto un post su questo). A cominciare dalle didascalie, che spiegano (inutilmente) ogni gesto dei personaggi (vodsel o alieni che siano) coinvolti nello scambio, che sottolineano aspetti che il lettore può immagiare grazie alla battuta del personaggio. Inoltre ogni didascalia dialogica contiene un sinonimo di “disse”, cosa che alla lunga stanca (rispose, riattaccò, biascicò). Uno dei termini più usati dallo scrittore inesperto (roba che quando ne vedo nei testi pubblicati chiudo il libro e mi concedo una pausa di decompressione) è “ringhiò”. Se l’effetto scenico di questo verbo può far colpo su un lettore cinquenne – tutti ricordano la nonna di Cappuccetto rosso –, su un lettore adulto e consapevole molto meno, può anzi arrivare a infastidirlo. Eccomi! E in questo testo è presente cinque volte in poco più di duecento pagine.

Il romanzo è interessante e può risultare una lettura piacevole, anche se un piacere a mio avviso altalenante. Questo al netto dell’intento moralistico. Il romanzo è stato infatti da alcuni interpretato come una voce di denuncia contro gli allevamenti intensivi, la brutalità dell’uomo sulla donna e altre problematiche. Intento moralistico che non ho trovato eccessivo (per un romanzo di narrativa) ma neanche particolarmente illuminante. 

“Il mio padrone, il mio vincitore”, di François Henri Désérable | Recensione

Il mio padrone, il mio vincitore (di François Henri Désérable, tradotto da Fabrizio Ascari per La nave di Teseo) è la storia di una storia d’amore. La storia di una storia, esatto, perché a narrarla non è uno dei diretti interessati nell’affaire, ma un amico comune della coppia, che fornisce la sua versione come testimone davanti al giudice. 

Vasco, curatore della Biblioteca Nazionale di Francia, e Tina, attrice teatrale innamorata della poesia di Verlaine e Rimbaud, vivono la loro storia d’amore nella clandestinità, perché lei ha un compagno e due figli, ed è prossima al matrimonio. Donna appassionata e anticonformista, Tina è posta davanti alla grande scelta: da una parte la precarietà della fiamma dirompente e indomabile di un sentimento che divampa tra i muri di alberghi a ore o sale di lettura di biblioteche in orario di chiusura, e dall’altra un futuro matrimonio sicuro e solido, ma impregnato dell’ordinaria routine di una vita addomesticata e verosimilmente priva di guizzi. È per far fronte alle minacce del futuro marito di Tina che Vasco si procura le armi (e che armi!)  con cui si metterà nei guai. 

L’espediente narrativo di base è piuttosto curioso. Un testimone aiuta il giudice a comprendere i significati nascosti nell’unica prova a disposizione dalle forze dell’ordine: il diario di Vasco. L’amore per la poesia da parte dell’autore – François-Henri Désérable, ex giocatore di hockey di 35 anni che dal 2013 sforna libri ad anni alterni – si riflette a pieno in questa scelta: il diario di Vasco è infatti una raccolta di poesie e ognuna di queste è relativa a una stazione nella via crucis della sua storia d’amore con Tina. Se codificata, ogni poesia costituirà un’informazione in più per le autorità e un aiuto a delineare il profilo psicologico del soggetto.

Inserti poetici, quindi, e continui richiami ai grandi autori (europei ma soprattutto francesi – Verlaine, Apollinaire, Proust, Rimbaud, Voltaire…) si intersecano alla prosa del narratore che, appunto, è in una stanza di tribunale per la deposizione. Spettatore distaccato, ironico e super partes, dalle sue parole estrapoliamo la codifica del diario e il racconto di questa storia d’amore, e ci appare quasi come un narratore onnisciente, visto che raccoglie e si fa interprete dei punti di vista di Tina, di Vasco, di Edgar, il compagno tradito, e riempie i vuoti con le proprie supposizioni.

Il fulcro tematico del libro è la domanda: quanto può distruggere della vita di una persona – pur se anticonformista e appassionata – un amore quando si abbatte su di lei? Quanto può influire un amore clandestino, vissuto con una potenza debordante e difficilmente controllabile? Quanto sarà disposta Tina a mettere in gioco della propria vita e delle proprie sicurezze che negli anni ha saputo costruire, per seguire l’impulso travolgente ed effimero della passione?

Una delle caratteristiche più rilevanti del libro è la musicalità della scrittura, ottenuta con raffinati intarsi nella costruzione di frasi e periodi.
Il seguente passaggio, ad esempio, raccoglie le riflessioni di Tina, che si lancia in un soliloquio con Vasco e il proprietario di un hotel, davanti a un bicchiere di assenzio. Il tutto è espresso in un flusso di coscienza a evidenziare lo stato di confusione provocato dall’alcol e quello in cui si trova Tina nei confronti del suo grande dilemma. 

Sessantasette gradi. Fuoco che scende nelle vene, predisponendo alle confidenze. A sessantasette gradi il cuore si apre, le lingue si sciolgono. Quella di Tina soprattutto, Tina che aveva una famiglia, due bambini, un padre per i suoi figli che presto sarebbe diventato suo marito, suo marito che lei amava, perché lo amava suo marito, lo amo, diceva, sì, veramente, lo amo, ripeteva Tina davanti a Vasco, e gli diceva anche che lei e lui non erano niente in confronto, tu e io non siamo niente, un infinitesimo in confronto a ciò che sono riuscita a costruire con lui, eppure è questo niente a ossessionarmi, ad assillarmi, a rodermi, diceva adesso Tina al direttore dell’albergo facendosi versare altro assenzio, tutto ciò è assurdo, irragionevole, insensato, continuava Tina che beveva quel liquore bruciante come la sua vita.

Il brano inizia in forma impersonale (Sessantasette gradi. Fuoco che scende nelle vene, predisponendo alle confidenze), poi passa a Tina, in terza persona (Tina che aveva una famiglia, due bambini…) e dal discorso indiretto libero (perché lei lo amava suo marito) si porta sul diretto (lo amo, ripeteva) e prosegue con l’indiretto (e gli diceva anche che lei e lui non erano niente in confronto)
Come se una macchina da presa a volo d’angelo si avvicinasse piano a Tina fino a entrare in risonanza con lei, con i suoi pensieri più intimi, e poi, poco alla volta, tornasse fuori fino a riprenderla dall’esterno, mentre beve liquore bruciante come la sua vita.
Un brano che è montagne russe e fuochi d’artificio multicolori. 

Notevoli anche i cambi di punto di vista, sempre chiari e precisi, ma non anticipati da introduzioni didascaliche che appesantirebbero la lettura. Capita di trovarsi su due piani narrativi, nella mente e nelle intenzioni di due personaggi, nello stesso istante in luoghi e situazioni opposte, ognuno con la sua priorità. Nello stesso paragrafo. Sulla stessa riga. 

Spezzami la schiena, implora Tina che vuole essere suddita e sovrana insieme, svilita, profanata ma glorificata, indocile e sottomessa, principessa e puttana. Porca miseria, faceva sempre un freddo cane. Milleduecento metri quadri di vecchie pietre da riscaldare, costava molto ma avrebbero potuto fare uno sforzo. (…) Se solo Tina fosse stata lì con lui avrebbe saputo riscaldarlo alla sua maniera, quando voleva ci sapeva proprio fare, eh eh. Ansimante sopra Vasco, è lei a scoparlo adesso Non vuole più vederlo muoversi né sentirlo, gli chiede semplicemente di averlo duro, di essere l’inerte strumento dei suoi piaceri, tiranna, pensa Tina, sono una tiranna e lui è mio schiavo, è alla mia mercé e ne dispongo a mio piacimento. Edgar non riusciva a dormire. Non aveva fatto ginnastica quel giorno. Fare delle flessioni, degli addominali prima di rimettersi a letto? Lei gli mancava.

Una scrittura che scivola senza freni, che risucchia il lettore con una tensione costante verso la fine del libro, basata su una cifra ironica (leggera, non invadente) senza quel compiacimento realista fine a se stesso che appesantirebbe le pagine. 
Lettura che consiglio.

Una nota per la casa editrice: sull’aletta della sopraccoperta, nella sinossi Edgar è citato come Edward. Correggerei, in una eventuale ristampa. 

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