Ci sono esperienze che si scrivono da sole dentro di noi.
Accadono, ci travolgono, ci lasciano addosso un segno che non si può cancellare. E, a distanza di tempo, ci ritroviamo con la sensazione che quelle esperienze non appartengano più solo a noi, quasi ci chiedessero di essere raccontate, di trovare forma sulla pagina. È un’urgenza, a volte un obbligo morale. Bisogna farlo.
Ma è così semplice trasformare la propria esperienza in letteratura? Chi ci ha provato risponde con fermezza di no.
Per molto tempo, a chi pensava di scrivere la propria storia veniva ripetuto: “A chi vuoi che interessi? Della tua vita non frega niente a nessuno”. Eppure, negli ultimi anni, la tendenza ha invertito la rotta: il memoir, l’autofiction e l’autobiografia hanno conquistato sempre più spazio, lettori e riconoscimenti.
Diversi autori contemporanei hanno saputo trasformare le proprie esperienze personali in racconti universali, dimostrando che quando la memoria trova la forma giusta, può diventare letteratura che parla a tutti. Da Jonathan Bazzi a Paolo Cognetti, da Emanuele Trevi a Oriana Fallaci, al più recente Andrea Bajani, vincitore del Premio Strega con il suo “L’anniversario”, i successi non mancano.
Eppure scrivere di sé nasconde insidie che altri generi letterari non conoscono. Il coinvolgimento emotivo può diventare un ostacolo, la tentazione della cronaca può soffocare la narrazione, il peso del vissuto può impedire la necessaria distanza artistica.
Di seguito esploreremo le strategie che permettono di superare questi ostacoli, analizzando esempi di successo e fornendo consigli pratici per intraprendere questo viaggio complesso ma straordinariamente gratificante: quello di trasformare la propria memoria in letteratura.
Alcuni esempi concreti e contemporanei
Jonathan Bazzi con Febbre ha saputo trasformare un’esperienza di fragilità e marginalità in un romanzo potente e universale; Paolo Cognetti, partendo dalla propria esperienza autobiografica nel romanzo Le otto montagne ha creato una storia di amicizia e montagna che ha toccato migliaia di lettori; Matteo B. Bianchi con La vita di chi resta ha saputo intrecciare l’esperienza personale (il dolore per la perdita del compagno) con una riflessione culturale; Emanuele Trevi ha raccontato in Due vite la memoria degli amici scomparsi, trovando una forma limpida, commossa ma non retorica. Non sono che pochi di moltissimi esempi, ma bastano a dimostrare che la letteratura del sé non è più un esercizio privato, ma è diventata un genere centrale, amato e rispettato. Ecco alcuni dei miei consigli.
Alcuni consigli pratici – che uso tutti i giorni con i miei autori
La domanda è ancora sospesa: Come raccontare la propria memoria senza incorrere nei tranelli che il genere porta con sé?
Perché di rischi ce ne sono. Quando scriviamo di noi, il coinvolgimento emotivo è fortissimo, la tentazione di riversare tutto sulla pagina, come in un diario o in una confessione, è un impulso non facile da contenere. Ma la scrittura letteraria chiede altro: distanza, misura, capacità di trasformare un’esperienza intima in un racconto che possa parlare anche agli altri, senza gravare su di loro del proprio – personalissimo – carico emotivo. Come fare? Per prima cosa occorre trovare la giusta distanza.
La giusta distanza
Ci permette di assumere un punto di vista che consenta di vedere la propria storia come materia letteraria, e non solo come materia personale. È lo spazio di elaborazione che permette alla memoria, ai ricordi e alle emozioni ad essi associati di trasformarsi in linguaggio letterario.
Per meglio comprendere quanto affermato vediamo alcuni esempi, attingendo direttamente dalla letteratura. Uno dei principali autori della memoria letteraria è il monumentale Marcel Proust.
La chiamava “memoria involontaria”: non il ricordo ricostruito, ma quello che riaffiora attraverso immagini, sensazioni, sapori, suoni. È un modo di scrivere che non (sempre) racconta ciò che è successo in modo lineare, ma evoca, lascia che i dettagli parlino, fa emergere la vita senza spiegarla in maniera eccessiva.
Attingendo dalla letteratura contemporanea italiana, possiamo ricordare Emanuele Trevi. Nel suo Due vite, vincitore del Premio Strega 2021, non stila un necrologio degli amici scomparsi, ma sceglie momenti, frammenti, dettagli che restituiscono la loro presenza più di qualsiasi elenco di fatti; il risultato è un racconto autentico, perfettamente fruibile.
Oriana Fallaci nel suo romanzo Un uomo ha saputo trasformare la propria storia d’amore con il politico greco Alekos Panagulis in un racconto che trascende il memoir personale ed evita la mera cronaca sentimentale per farsi ritratto universale della lotta contro l’oppressione, dell’amore che diventa resistenza. La chiave che l’autrice ha trovato è stata ripercorrere quella storia senza romanticismi o indulgenze, trasformando l’esperienza personale in un documento che parla a tutti di coraggio, libertà e amore totale. In una parola, ha trovato la giusta distanza.
La giusta distanza è proprio questo: la posizione ideale dalla quale selezionare, evocare, trovare il tono giusto e una chiave narrativa universale. Allontanare da sé il peso emotivo dell’evento per raccontarlo nel migliore dei modi, come un’opera letteraria e non come in una seduta psicanalitica.
Connotare, non denotare
Chi si accosta al memoir spesso pensa di dover raccontare “la verità dei fatti”, ma la forza e l’efficacia della scrittura non sta nella cronaca, ma nella capacità di evocare.
Cosa vuol dire?
Non serve sempre nominare direttamente un dolore, un trauma, una perdita. A volte è molto più potente farlo emergere attraverso un simbolo, un gesto, un dettaglio sensoriale. Il lettore ha bisogno di sentire. Anche se scriviamo “ho perso mio fratello in un incidente” il lettore capisce, certo. Ma se evochiamo il silenzio della sua stanza rimasta intatta e la luce della sua abat-jour che cade su un letto adesso vuoto, quel dolore diventa esperienza condivisa.
Preferire, in sintesi, un linguaggio che non si limiti a raccontare i fatti, ma che evochi, suggerisca, lasci spazio all’immaginazione del lettore. È quello che Roland Barthes, nel suo celebre saggio S/Z del 1970, chiamava “codice simbolico”.
Il potere dei simboli nella scrittura
Barthes aveva intuito che i testi più potenti sono quelli che creano risonanze nel lettore, e il codice simbolico funziona proprio così: invece di seguire la logica lineare diacronica e denotativa dei fatti narrati, apre il testo a significati più profondi, spesso inconsci.
Funziona per associazioni libere, come i sogni. Una porta che si chiude può evocare una separazione, un tramonto la fine di un’epoca, il silenzio di una stanza il vuoto lasciato da chi non c’è più. Il lettore non riceve passivamente l’informazione: partecipa, riempie gli spazi, riconosce nelle immagini le sue esperienze.
Questo fa esplodere un testo di memoir, oltre la semplice cronaca personale. Quando riesci a trasformare la tua esperienza in simboli universali, la tua storia diventa anche quella di chi legge. La scrittura autobiografica vive di questa sottigliezza: dire senza dire, evocare più che spiegare.
Scrivi senza censura, poi lavora per sottrazione.
All’inizio lascia che tutto venga fuori. Ma poi chiediti: cosa serve davvero al lettore? Cosa invece è solo mio sfogo personale?
Stephen King dice “scrivi la prima bozza con la porta chiusa e la seconda con la porta aperta”. Con questa metafora intende che nella prima stesura ci siete tu e il tuo testo, nessuno altro è ammesso. Questo ti consentirà di scrivere liberamente e liberare davvero tutto il carico che conservi, senza paura di giudizi o reazioni altrui. Lascialo poi sedimentare il giusto (anche dei mesi, perché no?), rileggilo armato di pazienza e… di ascia affilata!
Cerca il dettaglio evocativo
Una scena, un odore, un dialogo spezzato, un sottotesto spesso dicono più di mille spiegazioni. Cerca di tradurre le istanze più dolorose in oggetti simbolici, in metafore e trasferirle sul tuo testo. Se ci riuscirai, sentirai affiorare qualcosa di simile a una magia: il peso si trasferisce fuori da te e si traduce sulla pagina in un’immagine libera di quel peso.
Non avere fretta
La memoria ha bisogno di tempo. Non si può scrivere subito, serve lasciar decantare. Sedimentare. Quanto? Questo dipende da te, dal tuo coinvolgimento emotivo dai fatti che racconti, dalla distanza che nel tempo hai messo tra te e ciò che vuoi raccontare. Il momento giusto per scrivere non è quando il dolore è scomparso – spesso non accade mai – ma quando riesci a guardarlo senza esserne inghiottito. Quando diventa possibile trasformare quella ferita in parole, senza che le parole siano soltanto grido o sfogo. Allora la scrittura non è più un prolungamento della sofferenza, ma un modo per darle forma, per condividerla, per farla diventare esperienza che riguarda anche altri.
È un passaggio delicato e personale e riconoscerlo con sincerità, senza forzare i tempi, è il primo passo per arrivare a scriverne in maniera letteraria.
Non aver paura, a volte occorrono anni. A volte non bastano. È una condizione assolutamente normale. Sana, umana.
Accetta la guida di uno sguardo esterno
Un editor, se ha sensibilità ed esperienza, diventa un alleato prezioso per trovare la forma giusta. Trovare quella benedetta giusta distanza da soli appare quasi utopico, non sai cosa tagliare, cosa lasciare, cosa mettere a fuoco, il caos offusca la capacità cognitiva. Considera di rivolgerti a un professionista che ti aiuti a guardare la tua storia con uno sguardo esterno; non giudicante, non freddo, ma capace di rispettare la tua verità intima e al contempo di aiutarti a trasformarla in racconto letterario. La sua sensibilità sarà fondamentale, perché occorre ascoltare, capire, intuire cosa non viene detto, cosa invece è di troppo. Serve tatto. Molti autori alle prime armi sottovalutano questo passaggio: credono che basti scrivere tutto e poi “sistemare la forma”. Ma nel memoir non funziona così. La forma è parte integrante del contenuto. Senza un lavoro di distillazione e cura, il rischio di restare prigionieri della cronaca caricandola delle proprie emozioni è molto alto. Il risultato? Qualcosa che può andare bene da far leggere ai tuoi cari, gli amici che hanno vissuto insieme a te quei fatti o che ti vogliono conoscere meglio. Ma, e l’abbiamo visto, per rendere universale il tuo percorso è necessario scrivere da scrittori. E un editor – purché dotato di grande capacità empatica – può aiutarti.
Scrivere di sé è uno degli atti più coraggiosi che esistano. Non è semplice, non è indolore. Ma può diventare un atto terapeutico, di liberazione e di verità. La differenza la fa il modo in cui si sceglie di raccontare: non come confessione privata, ma come gesto di condivisione, come forma letteraria.
Terapia e gioia della condivisione.
Ogni memoria custodita in silenzio è in una stanza chiusa, che ci consuma lentamente. Scriverla è spalancare la porta e scoprire che fuori c’è chi aspettava proprio quella luce, perché persino il dolore, quando trova le parole giuste, smette di essere soltanto nostro.
Non è solo la tua storia: se la racconti con verità e misura può diventare specchio, conforto e rivelazione per chi legge. Vale la pena custodirla in silenzio, quando può essere dono condiviso?
