Adelphi riporta in libreria Georges Simenon in questa nuova edizione di Le persiane verdi, per la traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio.
Émile Maugin è un attore cinquantanovenne che ha raggiunto il successo solo in età avanzata. Fino ai quaranta “ha fatto la fame” e, adesso, nonostante il grandissimo successo, il senso di incompiutezza non lo abbandona. Quando il medico gli rivela che, con il cuore così malmesso, se non modifica il suo stile di vita gli rimarrà ancora poco da vivere, Maugin è costretto a fare un bilancio della propria vita. A tirare le somme. E si accorge di aver paura della morte, perché ancora, nonostante le sue ricchezze e la sua fama, non ha ottenuto la cosa più importante: la casa con “le persiane verdi”, ovvero la sua pace terrena.
L’inconsistenza, di fronte alla possibilità del tutto.
Dissolutezza, la chiamano. È uno stadio a cui molte star adattano il proprio modo di vivere. Un modo per cercare di dare un senso a quel paradossale straniamento che il potere di avere tutto comporta. Quando hai tutto ciò che vuoi, quando la vita è ormai un desiderio perenne, l’esistenza si riduce alla ricerca continua di qualcosa, sempre di qualcosa, che non arriverà mai perché l’obiettivo, l’oggetto agognato, cambierà con il suo raggiungimento. Allora questa vita deve darti di più, sempre di più. Ma una vita senza confini sfocia per definizione nell’eccesso, quello che porta Maugin a lavorare senza sosta – anche con un’età e un prestigio sociale che gli consentirebbero di prendersi pause senza timori –, ad abusare di alcolici, a molestare la (più o meno consenziente) servitù di casa, a trattare il prossimo come un suddito, un peso, un ostacolo.
È in tutto questo marasma, questa dissolutezza, questi eccessi, queste possibilità pressoché sconfinate, che emerge dal cuore di Maugin un senso di alienazione, spaesamento, solitudine, nonostante sia attorniato da uno stuolo di lacchè e sostenuto da una giovane moglie innamorata e devota. Forse è soltanto la paura dell’ignoto che l’apprestarsi della morte come immagine sempre più imminente porta con sé. L’antico dilemma. Chi sopporterebbe grugnendo e sudando il peso della vita se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte ci spaventa e ci impedisce di ucciderci? Qui, a differenza dell’Amleto, non si parla di suicidio, ma la paura atavica di qualcosa da cui non c’è ritorno torna incombente anche in queste pagine, tinte di scuro, di solitudine, di amarezza.
Scritto nel gennaio del 1950 in una decina di giorni abbondanti, Le persiane verdi è un romanzo che appartiene ai romans durs, la categoria che Georges Simenon ha coniato per distinguere i suoi romanzi più popolari, i cosiddetti romans de gare, la saga poliziesca di Maigret, per intenderci, da quelli, come il presente, più psicologici, cupi e complessi.
La scrittura è sempre pulita, asciutta, priva di fronzoli o distrazioni, rigorosamente al servizio della prosa, elaborata per sottrazione. Ma rispetto ai Maigret, da questi romanzi emerge un autore più attento ai contrasti, alle sfumature psicologiche dei personaggi e alle loro dinamiche interiori. Come avviene per Maugin, un uomo che si compiace del suo apparire burbero, severo, arcigno e piuttosto scostante, ma il cui vero sogno è una casa con le persiane verdi, simbolo di una vita semplice e tranquilla, lontana dal clamore del successo e dalle angosce dell’esistenza. Un’esistenza che sembra offrirgli tutto, tranne la felicità.
