“La vita di chi resta”, di Matteo B. Bianchi | Mini recensione

Dopo oltre vent’anni dall’accaduto, Matteo B. Bianchi trova con La vita di chi resta la forza di raccontare attraverso la forma scritta il più grande dolore della sua vita, dal momento in cui, dopo la telefonata conclusasi con “quando torni io non ci sarò già più”, trova in casa il cadavere del suo compagno impiccato. Raggiunta a suo dire una sufficiente distanza dal fatto, l’autore tenta l’ardua impresa di scriverne.

La vita di chi resta è un memoir, una raccolta di pensieri riordinati in anni di sofferenza, trambusto ed elaborazione. È scritto bene e ben strumentato, ma parlare di aspetti tecnici e narrativi in un libro di questo tipo non è appropriato. Di fronte a un’analisi che sembra sincera e rappresenta una caduta negli inferi del lutto, nei sensi di colpa che si rinnovano in una instabilità emotiva che si innesta come stato di partenza per tutto il resto, di fronte a tutto questo dolore è difficile parlare d’altro. Difficile e inutile.

Ho apprezzato la sincerità e il coraggio, più di tutto il resto, anche se personalmente non sono del tutto convinto che Matteo B. Bianchi abbia davvero raggiunto quella distanza, la distanza sufficiente a raccontare questo dolore. Il coinvolgimento c’è ancora, impossibile sbiadirlo, ridurlo. Nonostante questo però il testo è pressoché scevro da enfatizzazioni melodrammatiche e concetti cliché, ed è qui che risiede la sincerità che ho apprezzato. Un libro che credo abbia aiutato l’autore e che, nell’anonimato del dolore da lui stesso evocato, possa essere di conforto a chi ha subito un lutto del genere. 
Una speranza di ritrovare una luce, un senso alle cose e alla propria esistenza.

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