Qualche giorno fa, la Casa Bianca ha dato il via libera alla fornitura all’Ucraina di bombe a grappolo, armi disumane a tal punto da essere bandite da più di cento Paesi nel mondo. Bombe che rilasciano a loro volta centinaia di submunizioni, che spesso rimangono inesplose e mettono a repentaglio la vita dei civili, anche per decenni dopo il conflitto. Al telegiornale, lindi nei loro completi di sartoria, ricchi gestori di morte scendevano da auto corazzate per incontrarsi e discutere della vita di migliaia di persone.
Non sono poi cambiate di molto le cose rispetto a un secolo fa, quando Joe Bonham ha combattuto la prima guerra mondiale. Perdendo ogni cosa.
Johnny get your gun, era l’invito del manifesto che tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo invitava i giovani americani ad arruolarsi: “Johnny, prendi il fucile”.
E Johnny prese il fucile.
Dalton Trumbo, convinto antimilitarista, dà vita a un libro (da cui poi l’omonimo film diretto dallo stesso Trumbo) che colpisce devastante.
Prima guerra mondiale, soldati americani di stanza a Parigi. Per l’esplosione di una bomba, l’ultimo giorno del conflitto, Joe Bonham perde le gambe, le braccia, la mascella, la vista, l’udito, l’olfatto. Rimane un tronco, con un cervello ancora funzionante. E, con quel cervello, vola.
Tutta la sua vita era così simile al sonno che non aveva alcuna possibilità di segnare la differenza. Per forza di logica doveva essere sveglio gran parte del tempo. Ma l’unico momento in cui poteva con certezza dire di essere sveglio era quando sentiva le mani dell’infermiera.
Il romanzo è uno stream of consciousness, tra pensieri, ricordi e riflessioni libere e urticanti. Prima, seconda, terza persona, forma diretta libera, indiretta. Non importa. Una prosa piana, vicinissima al parlato, e niente punteggiatura. Non ce n’è bisogno. Joe non pensa alle virgole, non si preoccupa che il suo modo di esporre appaia piacevole alla lettura. Joe odia com’è ridotto, odia chi l’ha costretto a combattere la guerra che l’ha ridotto così. Odia non poter comunicare, essere chiuso nel suo, e solo suo, mondo. Una frustrazione umana lacerante. Tante le domande. Soprattutto una: perché?
Per cosa, si domanda, ho combattuto?
Eccoti qui Joe Bonham steso come un quarto di manzo appena macellato per tutto il resto della tua vita e per cosa? Ti hanno battuto una mano sulla spalla e ti hanno detto su ragazzo vieni andiamo in guerra. E tu sei andato. Ma perché? In qualsiasi altro contratto quando compri una macchina o lavori sotto padrone hai il diritto di chiedere qual è il mio guadagno? Altrimenti compreresti macchine non buone a prezzi esorbitanti oppure sgobberesti per qualche fesso col rischio di morire di fame. Era una specie di dovere che uno aveva verso se stesso quando qualcuno gli veniva a dire figliolo fai questo o fai quello di alzarsi in piedi e rispondere mi scusi signore ma perché dovrei farlo e cosa ci guadagnerò io alla fine? Ma quando arriva un tizio e ti dice su vieni con me a rischiare la vita forse a morire o a restare mutilato be’ allora non hai il diritto di dire né sì né no o ci penso sopra. Ci sono un sacco di leggi che proteggono il denaro di un uomo anche in tempo di guerra ma non c’è un libro che dica che la vita di un uomo gli appartiene.
Una domanda, quella sul perché delle guerre, che tormenta da sempre Dalton Trumbo, talentuoso e richiestissimo sceneggiatore di Hollywood. Autore dapprima incarcerato perché accusato di simpatie filo comuniste e cospirazione contro i valori democratici della nazione, e poi, finito nella lista nera degli autori stipulata dal governo, costretto a lavorare sotto pseudonimo per diversi anni, finché Kirk Douglas non lo convinse a usare il suo vero nome sulla sceneggiatura del colossal Spartacus, liberandolo di fatto dal giogo della censura maccartista.
Pubblicato nel 1939 e insignito del National Book Award, Johnny got his gun, aderiva alla linea del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, di cui Trumbo faceva parte, che voleva evitare l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Poi, nel 1941, quando Hitler invase l’Unione Sovietica, il partito cambiò idea e appoggiò l’intervento americano al fianco dell’Unione Sovietica e Trumbo si affrettò a ritirare il libro dal mercato fino alla fine della guerra.
Ora se muori per proteggere la tua vita non sei certo più vivo e allora che senso ha una cosa del genere?
Quando Joe vive i tocchi dell’infermiera sul proprio petto come un dono insperato di inestimabile valore. Quando ricorda il perché si è arruolato, non per liberare il suo Paese come da promesse governative ma per uscire di prigione. Quando, disperato, con scatti del collo e colpi della nuca sul cuscino, cerca di comunicare con l’alfabeto morse. Quando si sente tradito. Quando qualcuno lo premia con una medaglia, di cui sente sul petto il gelido tocco metallico.
Gli avevano dato una medaglia. Tre o quattro pezzi grossi che avevano ancora gambe e braccia e che potevano vedere parlare e odorare e gustare erano venuti in camera sua e gli avevano puntato una medaglia sul petto. Se lo potevano permettere vero razza di bastardi che ve lo potete permettere? Non avevano tempo per fare altro che correre in giro a puntare medaglie e a sentirsi importanti e soddisfatti di sé. Quanti generali muoiono in guerra?
Quando il calore mutevole della giornata è l’unico contatto con il tempo che passa e l’unico modo per calcolare il trascorrere dei giorni.
Pensava se non avrò mai niente dalla vita avrò sempre l’alba e la luce del sole mattutino.
E johnny prese il fucile è un libro che va contestualizzato, agito, vissuto. In cui addentrarsi senza pretese di trame o colpi di scena. Joe ha solo il cervello. E pensa di continuo. È un manifesto di pacifismo integrale. Un ritratto della distruzione che la guerra rappresenta.
Di ideali, di valori. Di umanità.
