“La cantina”, di Thomas Bernhard | Recensione

Thomas Bernhard ricorda la sua giovinezza, quando all’età di quindici anni ha interrotto gli studi al ginnasio per dedicarsi all’apprendistato nell’ambito del commercio.

Un giorno, invece di andare a scuola, il giovane Bernhard inverte la rotta per prendere la direzione opposta, verso l’ufficio di collocamento. Qui un’impiegata zelante gli fa una serie di proposte – molti famosi negozi in centro cercavano apprendisti – che lui rifiuta. La direzione opposta è il suo obiettivo, se l’è ripetuto per tutta la strada verso l’ufficio. Alla fine l’impiegata gli propone la cantina e lui accetta senza esitazione, certo di fare la scelta giusta.
La cantina è ubicata nella zona più malfamata di Strasburgo, il quartiere di Scherzhauserfeld, ed è gestita dal signor Karl Podlaha. Rappresenta per gli abitanti del quartiere molto più che un negozio di alimentari. È un luogo di ritrovo, vivace e sereno, occasione per staccare dalla miseria della propria routine. I clienti ci vanno per fare due chiacchiere, a volte anche senza comprare nulla, solo per raggiungere quel centro nevralgico e vitale ed essere contagiati dalla sua energia. La cantina è crocevia di personaggi emarginati e disperati, e Bernhard come una spugna fa incetta delle loro storie, acuendo la capacità di assorbirle e di raccontarle, dote che in futuro lo aiuterà nel suo mestiere di scrittore.
Lavorando nella cantina, Bernhard trova infine la felicità e la voglia di seguire la sua vocazione: la musica. Inizia così a seguire lezioni di canto e di teoria musicale, e sta facendo grandi progressi quando una malattia respiratoria lo blocca a letto impedendogli di proseguire su questa strada. 

“Da mio nonno ero andato a scuola di filosofia in una situazione ideale perché allora ero molto giovane, con Podlaha, nel quartiere di Scherzhauserfeld, mi sono addestrato alla realtà più grande che possa esistere, la realtà assoluta”.

La cantina di Karl Podlaha a Salisburgo.

Ecco in sintesi la trama del libro, che non è una vera trama ma più un pretesto per una serie di considerazioni, pensieri e spunti. Il centro del romanzo non è una storia ma un concetto. Un’espiazione catartica. 
Si esamina la società e l’iniquità della stessa, il marcio in cui la parte ricca abbandona e ghettizza quella povera incurante dei suoi disagi e della sua arretratezza. Si denuncia il divario esistente tra i cittadini di Salisburgo e la popolazione che abita Scherzhauserfeld, “anticamera dell’inferno” dove suicidi, liti, furti e violenza sono all’ordine del giorno.
Si viaggia con Bernhard in direzione opposta, la “direzione ostinata e contraria” tanto cara a Fabrizio De André; forse è proprio da qui che il cantautore genovese ha attinto quel fondamento della sua poetica. 

Lo stile è ripetitivo, martellante, petulante. Volutamente disturbante. Dal testo emerge un concetto? Tu, lettore, lo acciuffi con rispetto e attenzione. Poi però lo stesso concetto viene ripreso, ripetuto, parafrasato, tradotto, rimestato, rigurgitato e ancora riproposto, magari pagine dopo, quando credevi di averla fatta franca. Affiora così il senso di irritazione che ti porta a  odiarlo, quel concetto, e a perdere di vista la trama, se ce ne fosse una.

Testo certamente apprezzabile per la qualità della prosa, la cura nella costruzione della frase e la profondità di investigazione dell’animo umano, anche se non sempre facilmente fruibile.

“In ogni riga che scrivo sono sempre rimasto un disturbatore della pubblica quiete”.

Recensione di Francesco Montonati

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