“L’isola dell’abbandono”, di Chiara Gamberale | Recensione

Dopo essere stato salvato da Arianna, che con il suo famigerato filo gli aveva permesso di trovare la strada per uscire dal labirinto, Teseo la abbandona sull’isola di Nasso. Da qui il detto “piantare in asso”. Metti che in un cruciverba.

A questa leggenda si lega idealmente il dodicesimo romanzo di Chiara Gamberale L’isola dell’abbandono. Stessa isola, Naxos, e la protagonista Arianna cerca di uscire dal suo personalissimo labirinto, fatto di trappole e vicoli ciechi che lei stessa sembra avere disposto attorno a sé. Complice un uomo, Stefano, figura mefistofelica che in questo labirinto si è calato insieme a lei, trascinandola fino a quel sottosuolo tanto caro a Dostoevskij in cui forte quanto irragionevole sembra essere la pulsione verso la sofferenza. Che potrebbe essere lenita, se lo si volesse davvero. La paura dell’abbandono è alla base di questo romanzo, che chiama parecchio in causa la psicoanalisi. Molti infatti i riferimenti al mito, la filosofia che incontra la psicologia teorica.

Figura esiziale, quella di Stefano, che racchiude in sé l’essenza lesiva di tutti quelle personcine inconsistenti, incompiute e male strutturate, in cui capita spesso di imbattersi nel corso della vita, individui che si riempiono di sovrastrutture per darsi un tono e che è complicato trovare sotto quell’ammasso di fuffa, e che rendono tossico tutto quello che toccano. Stefano è il tenebroso e dannato, afflitto da problemi profondi, esclusivi. Arianna, perdutamente innamorata di quest’omuncolo, è anche consapevole della disfunzionalità della relazione e, senza mai riuscire a costruire niente di fecondo con lui, vive come un quotidiano assillo il timore dell’abbandono. Abbandono che ogni volta si verifica.
Stefano va. Poi torna. Va, scappa con una donna, ogni volta una diversa, e poi ritorna. E lei, Arianna, sempre lì ad aspettarlo, ad accettarlo per l’ennesima volta. Finché…

Chiara Gamberale autrice de "L'Isola dell'abbandono".
Chiara Gamberale

Di consapevolezze non ce ne sono più, se l’è portate tutte via l’onda anomala di questo amore nuovo, immenso, spaventoso, inconcepibile, sembra pronto per abbracciare l’umanità intera un amore così, tanto è forte, e invece no, dell’umanità intera se ne frega, dall’umanità intera ritaglia solo un minuscolo rappresentante che ancora non ci vede bene, fa la cacca verde, strilla beve latte e dorme, quello lì, eccolo, è lui: è il mio.

L’inizio è forte. Promette bene. Lo stile è solido, consapevole, la storia si segue con interesse, i personaggi appaiono ben costruiti e la narrazione è dipanata con sapienza. Tecniche narrative presenti (evidenti) ma non invasive. Molte le anticipazioni e le esche narrative, ben strumentato lo sviluppo dell’intreccio, con salti temporali avanti e indietro che non rendono difficoltoso seguire la vicenda.

Peccato che questo idillio duri solo metà romanzo, finché inaspettato arriva il crollo.
Di colpo le situazioni diventano forzate, parossistiche, posticce. Pagine e pagine si susseguono colme di digressioni ed elucubrazioni, le tematiche si accavallano e si mescolano in un gorgo confuso: il tema dell’abbandono, la felicità di avere un figlio, la responsabilità genitoriale, lo scombussolamento per il cambio di vita, la morte, la paura della morte, l’esperienza della morte e i suoi strascichi… Il dialogo finale di 50 pagine, poi, disorienta perché buttato lì, gratuito, quasi esplicativo, introdotto a forza e a forza spedito verso un finale catartico, un’epifania che appare immotivata se non addirittura incoerente.

Il testo sbraca, se fosse un cavallo si potrebbe dire che ‘rompe’. I personaggi perdono il vigore della realtà, diventano fumetti, figurine al servizio dell’autrice. Così come la prosa che Gamberale sembra utilizzare per dare corpo alle sue riflessioni, e il lettore si trova in disparte, piccolo piccolo, a seguire i suoi volteggi pirotecnici e strabilianti. La storia si appiattisce ineluttabilmente (quasi si dimentica), e il racconto finisce per naufragare. Una terza persona che potrebbe essere una prima. Quasi subentrasse, esplodesse l’urgenza emotiva dell’autrice di spiegarsi qualcosa, che non riuscisse a controllarla, e che questo flusso si impadronisse del racconto, in maniera disordinata e preponderante. Con le premesse descritte all’inizio, se la storia improvvisamente si scioglie in arzigogoli e voli pindarici filosofeggianti il testo diventa una figura amorfa tra il saggio e il diario (intimo e personale dell’autrice) e il lettore si trova spiazzato. Le promesse iniziali sono in qualche modo – pur in buona fede – tradite, la grande domanda elusa. È vero che ciascuno di noi è abitato da miti, che Freud ci insegna che la storia di ogni essere umano è una serie di abbandoni, che la vita non si distende lineare ma è tagliata da successive separazioni e cesure. Ma è anche vero che di narrazione si sta parlando. Narrativa, non saggistica. Prosa al servizio della storia.

Forse la distanza tra protagonista e autrice dovrebbe essere maggiore, come in effetti nella prima parte. Se il testo fosse continuato con quella spinta, quei bei cambi di ritmo, quegli sprazzi di flusso di coscienza, quelle soluzioni inaspettate ed efficaci, sarebbe risultato un romanzo speciale. Purtroppo però questa magia dura solo metà libro. Il resto è un girare pagine impazienti di arrivare alla fine. 

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