Una ragazzina è restituita alla famiglia d’origine dalla coppia che fino all’età di tredici anni l’ha cresciuta nella bambagia di una realtà cittadina e medio borghese. Quella da cui viene accolta è invece una famiglia sottoproletaria del centro Italia, in cui l’educazione dei figli soggiace a regole imposte dalla mera sopravvivenza. Si vive di poco, il capofamiglia si rompe la schiena in qualche fabbrica, mentre i (molti) figli lasciano la scuola prestissimo per dedicarsi ad attività più remunerative, leggasi impieghi più o meno legali. La protagonista vive questo passaggio in maniera conflittuale, la ritiene una scelta gravata da un’ingiustizia profonda, e il suo intento, fino alla fine del libro, sarà cercare il vero motivo per cui è stata abbandonata e di ritornare alla sua bella e comoda vita.
La vicenda è sintetizzabile in poche righe, il romanzo si sviluppa in centocinquanta pagine. E se da una parte è un testo ben scritto e strumentato, privo di facili enfatizzazioni o esagerazioni, dall’altra parte risulta povero. Una storia povera di eventi e di originalità. Non è tanto il tema, modaiolo di questi tempi, delle ragazzine amiche per la pelle che crescono diverse, che si cercano, che bisticciano, che si promettono fedeltà reciproca e di non lasciarsi mai – vedi L’amica geniale. È che dopo un buon inizio, invitante, scorrevole, (con personaggi che promettono di riuscire interessanti) si sviluppa attraverso deboli e già percorsi contrasti.
Visto che il romanzo è stato apprezzatissimo dai più – vincitore del Premio Campiello 2017 e acclamato da critica e lettori in tutto il mondo come capolavoro –, e quindi la mia cattiva pubblicità non può in alcun modo nuocergli, mi permetto di criticare quelle che a mio avviso sono scelte forse – mi lascio il beneficio del dubbio – un filo ruffiane. Una ragazzina abituata a pizzi e merletti abbandonata a una realtà sporca e dura, tra fratelli che la odiano, un padre burbero e assente e una madre violenta: quale cuore di pietra ammetterebbe di non empatizzare con lei? Poi c’è l’amichetta povera e ignorante ma tanto buona, genuina e, nel suo piccolo, coraggiosa – che qui, in questo caso, non è un’amica ma la sorella che non aveva mai conosciuto. Poi c’è la morte del fratello più grande, l’unico dei maschi con cui (con affetto forse un po’ spropositato, ci suggeriscono gli scrupoli della ragazzina) aveva legato, quello che la difendeva dai soprusi degli altri fratelli. E così via.
Manca la ferocia, in questo libro, la locura, quella follia inaspettata, quel guizzo che ti afferra per lo stomaco e ti porta via, inesorabile, e che in un romanzo che tratta di questi temi e di questi ambienti dovrebbe essere perno invisibile, nucleo lavico nascosto, pronto a balzare fuori all’improvviso e a stamparsi sul viso del lettore.
Neppure il finale è propriamente riuscito, un finale aperto e debolino, affatto risolutivo, che lascia inappagati e incerti, sia sul significato sia sul valore del romanzo stesso.
I capolavori della letteratura sono altri, quelli che per stile letterario e profondità di indagine costruiscono trame e muovono personaggi veri e pulsanti, e colpiscono nel profondo il lettore. È un capolavoro il libro che quando lo chiudi sai di essere qualcosa più. È chiaro che non ci troviamo di fronte a uno di questi esempi. L’Arminuta è un buon libro, un piacevole intrattenimento, ma a mio avviso non un capolavoro letterario.