Un editor scarta un testo dopo le prime dieci righe. Tanto infatti gli basta a stabilire il livello di maturità della scrittura. Per la mia esperienza tre sono i principali problemi per cui una scrittura si mostra acerba, e conoscerli può esservi utile a risolverli. Vediamo quali sono.
Il valutatore editoriale cerca innanzitutto una voce. Una voce matura, distintiva, forte e consapevole. Poi viene il resto. Idea, personaggi, trama… Se non c’è una voce solida a sostenere il tutto, il testo crolla. Lo sa bene l’editor che ne scarta a decine, ogni giorno.
Un manoscritto senza una voce interessante è scartato subito perché la storia, i personaggi e le scene, con un editor le puoi sistemare. Ma se il problema è la scrittura è tutta un’altra faccenda.
Il presidente di una nota multinazionale di freni per auto e moto ricorda con piacere una lettera del direttore sportivo di un team di Formula 1 che lo ringraziava perché i loro nuovi freni avevano consentito una riduzione del tempo sul giro di alcuni decimi di secondo: se avessero aumentato la potenza del motore avrebbero speso decine di milioni di dollari ottenendo lo stesso risultato.
Il discorso è molto simile. La storia, i personaggi e tutto ciò che riguarda la struttura si sistema con poco sforzo quando alla base c’è una voce potente. Viceversa se hai personaggi, idee forti ma non hai una voce, ci vuole una grande spesa per l’editor in termini di tempo e fatica per migliorarla.
Qual è l’editore che sceglie un manoscritto su cui deve lavorare pesantemente, invece di un testo che è scritto molto bene, a cui bisogna solo limare un poco la trama?
Ve lo dico io. Non esiste. L’editore vuole guadagnare – giustamente, è il suo lavoro –, non insegnarvi a scrivere.
Quali sono i problemi di un testo che svelano subito, senza ombra di dubbio, che la voce autoriale è incerta?
1. AGGETTIVAZIONE ECCESSIVA
2. CLICHÉ LINGUISTISTICI
3. SPIEGONE
Aggettivazione eccessiva.
Qualcuno ha detto che di due aggettivi, uno è di troppo. Ma se chiedete a me spesso anche solo il primo. La tentazione dello scrittore incompiuto è di infarcire la prosa di aggettivi, come se questo rendesse la lettura più piacevole, la descrizione più dettagliata. In realtà il novanta per cento delle volte gli aggettivi sono di troppo, e finiscono per appesantire la lettura (e irritare il lettore smaliziato). Fateci caso, quanti aggettivi di quelli che usate sono superflui?
Prendete un qualsiasi racconto di Hemingway, oppure di Carver. L’aggettivo è raro, e usato quando serve. Quando è evocativo, quando è stupefacente, inatteso. Sentite come “L’ombra calda” evochi subito una sensazione (Hemingway). O “il verde tenero” dell’erba a primavera (Pavese).
E invece come in “il cappotto pesante”, l’aggettivo sia pressoché inutile, oltre che abusato.
L’abuso ci porta subito al secondo punto.
Il cliché linguistico.
Nel bel pamphlet “La scrittura non si insegna”, Vanni Santoni parla di “banality”, prendendo spunto da un vecchio videogioco e distorcendo il nome “fatality” che si riferiva al colpo di grazia, la mossa finale. Perché, dice, il cliché porta a una sola cosa: l’eliminazione.
Le banality sono tutte quelle forme che ricorrono spesso negli scritti di autori non ancora formati. Di cosa stiamo parlando? Ecco alcuni esempi tratti dal libro: ampio salone, labbra carnose, lungo brivido, scorre a fiumi, spesso strato… E, ahimè, confermo. Le frasi fatte risuonano dissonanti fra le scapole del lettore editoriale che, trafitto una volta, raramente ve ne concederà una seconda.
Ma ci sono buone notizie. Evitare il cliché linguistico è possibile. Come? Leggere e rileggere e, a colpi di accetta, eliminare tutto il già sentito. Certo, c’è da essere spietati, ed esserlo con la propria creatura, anche se per il suo bene, non sempre è facile. Ma almeno provateci.
Lo spiegone
Va un po’ a braccetto con la tecnica numero uno dello scrittore moderno, lo show don’t tell. Quello dello spiegone è un problema piuttosto frequente e consiste nell’urgenza dell’autore di spiegare ogni singola cosa che succede nel libro. Cercate di evitarlo. Esprime insicurezza. Arriva al lettore come una giustificazione del perché la storia va in quella maniera, del perché quel personaggio fa questo, dice quello. E per estensione anche i dialoghi sono infarciti di queste spiegazioni, che finiscono per fare sentire il lettore come se lo si stesse trattando come uno sciocco a cui bisogna spiegarle, le cose, invece di mostrargliele affinché si faccia una sua idea. A me, fa chiudere il libro.*
Quale delle due soluzioni di seguito vi intriga di più?
1
«Ho voglia di bere».
«Non ci provare. Sono cinque anni che non bevi».
2
«Ho voglia di bere».
«Perché proprio oggi?»
Dovete dare al lettore l’essenziale, il superfluo lasciate che lo costruisca da solo. Dovete metterlo in condizione di avere quello che serve, e permettergli di creare il resto nella sua mente.
La lettura sarà un’esperienza attiva, stimolante e raramente noiosa.
Una opinione su "18. Tre tratti distintivi di una voce autoriale acerba"