“Morsi”, di Marco Peano | Recensione

Morsi è una fiaba nera caratterizzata da uno stile narrativo leggero, delicato. Il narratore mantiene sempre una certa distanza dai fatti narrati, evitando così di esporli in maniera troppo realistica o drammatica. Una fiaba appunto, in cui due ragazzini (uno dei quali ha appena saputo della morte dei genitori), in un paese in cui gli adulti muoiono dilaniandosi e divorando le proprie stesse budella, passeggiano con un maiale al seguito, quasi allegramente, lontani dell’orrore immane che una situazione del genere incuterebbe in un contesto realistico.
Come quando Teo estrae la sua Topoclic, la macchina fotografica di Topolino, e dice:

«Sta finendo il mondo e tu non vuoi fare delle foto?»

In Morsi, dunque, si assiste a un accostamento insolito. Una scrittura lieve (anche se, per i miei gusti, basata su meccanismi narrativi troppo evidenti) usata per tratteggiare episodi horror/splatter. 
Se questo sia un bene o un male, è un parere molto soggettivo. Alcune situazioni mostruose – alla Stephen King, per intenderci – narrate in punta di piedi, senza quello sguardo tagliente e disturbante perdono efficacia, mordente. Finisce per essere un elenco di orrori che non tocca chi legge. Forse può essere un modo per avvicinare a narrazioni horror un pubblico non abituato a leggerne.

Non lo definirei nemmeno horror. È un racconto di formazione, di amicizia. Poi ci sono, è vero, squartamenti, episodi di autocannibalismo, streghe (masche, pardon) e molto sangue. Ma il focus è sulla ragazzina, sulla sua crescita, sul rapporto con il suo amico. Questa è la scrittura su cui Marco Peano dovrebbe concentrarsi. Perché l’occasione mancata di questo romanzo (lo dico basandomi sul tipo di voce e dalla sensibilità che dimostra in questo testo l’autore), credo sia proprio lo sviluppo dei personaggi, del loro rapporto, della loro crescita. 

Un altro elemento che non mi ha convinto è la lentezza della narrazione. Ritmo e movimento scorrono monotoni, incuranti dei fatti e delle accelerazioni che la narrazione dovrebbe avere nei momenti di tensione. Il racconto continua sempre lento, costante, piatto, e anche nelle occasioni più movimentate troviamo interruzioni imposte da ricordi, descrizioni, considerazioni inutili ai fini del romanzo ed eccessive didascalie nei dialoghi. Si veda ad esempio:

«Ma secondo te come mai a noi non è successo?» chiese finalmente Teo, mentre costeggiavano il campo da bocce. 
Lei increspò le labbra: «Tu hai paura del dentista?»
«Come?» disse Teo, stringendosi nelle spalle per il freddo.
«Il dentista,» accennò Sonia con un brillio obliquo negli occhi. «A me non piace per niente farmi visitare dal dottor Bruna».

Tutte queste informazioni rallentano il dialogo che, come sappiamo (e come se certamente anche Peano, in quanto editor di Einaudi), serve per velocizzare il ritmo della narrazione e a fare vivere i personaggi.

Nel complesso un libro supportato da una scrittura consapevole e delicata, piacevole anche se priva di guizzi. Un libro che non mi ha convinto fino in fondo perché troppo indeciso sul genere che propone, senza indagarne nessuno in maniera esauriente.

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