Giosuè Greco è il vetturino del Conte Arese, il quale, parecchio geloso e preoccupato delle frequentazioni della moglie, lo incarica di tenerla d’occhio, soprattutto in sua assenza. Tra il puzzo nebbioso delle stalle e i dipinti preziosi alle pareti dei palazzi, Giosuè porta con sé il lettore in un viaggio nella Milano a cavallo tra Sette e Ottocento, popolata da contesse, poeti, briganti, servitori e cicisbei. Il compito del servitore è monitorare i movimenti della Contessa, annotarli e riportarli al Conte.
Due espedienti caratterizzano il romanzo di Andrea Pellegrini Piccole indecenze, uscito all’inizio di quest’anno per Castelvecchi Editore. Innanzitutto il genere: la bio-fiction.
Tratteggiare il ritratto di un personaggio storico realmente vissuto attraverso la lente della fiction, dell’invenzione narrativa. La storia romanzata, si sarebbe detto tempo fa.
La seconda idea che scompiglia le carte in tavola è il punto di vista. Non è solo una narrazione in terza persona. È un diario. Il diario di un uomo semplice, senza grandi ambizioni, che per compiacere il suo signore si ritrova a penetrare e a descrivere un mondo empio, gonfio di sotterfugi e tradimenti, in una città, la Milano napoleonica, abituata alle scappatelle e alle tresche, ma pronta a sconvolgersi se queste vengono alla luce. “Nella Milano del tempo” riporta la quarta di copertina, “è lecito collezionare concubini ma non indecenze”. La mondana borghesia dell’epoca osservata dall’occhio acquiescente e vigile dello staffiere Giosuè.
Il romanzo è il suo diario, la raccolta dei suoi appunti. Milano, 25 luglio 1801 è la prima data annotata sul suo primo quaderno (sono quattro in tutto a comporre la struttura) e l’amante della Contessa è il letterato Ugo Foscolo, che si strugge per la Contessa di quell’amore romantico e universalmente noto, intessuto di passione ed eccessi, di struggimenti e abbandoni, in questo caso anche ammantato dall’ombra della pena che il poeta nutre per la condizione umana.
Elegante e pacata è la scrittura di Andrea Pellegrini, già autore di diversi saggi e di un romanzo su Vincenzo Cardarelli, Lettera dalla Norvegia (Fara, 2006), vincitore del Premio Pontiggia. E se di poeti si vuol parlare, vale la pena sottolineare come anche la prosa di Pellegrini sia vicina alla poesia, per musicalità, ricercatezza del vocabolo, attenzione al particolare evocativo, costruzione sintattica e metrica.
È stato alla taverna, a consigliarmelo, il servo.
Si noti la figura sintattica dell’anastrofe, tipica della poesia. Come costruzione, il componimento poetico più semplice da accostare per somiglianza è Soldati di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma anche il sonetto Alla sera, dello stesso Ugo Foscolo: “Forse perché della fatal quïete / tu sei l’immago a me sí cara vieni (…)”.
Oppure quest’altra frase:
E mentre annoto queste ultime fa caldissimo. Una foglia non si muove nemmeno ora ch’è notte.
Ricorda lo sguardo notturno, malinconico e delicato di Cesare Pavese, autore che risuona nel romanzo anche altrove. Per esempio in alcuni luoghi che il protagonista sfiora, le Langhe, o forse anche nel nome della giovane amante di Giosuè, Teresa (come la Teresa Motta che fu collaboratrice e per un breve periodo amante di Pavese). Questo movimento dolce e sospeso accompagna l’intera narrazione, tramutato nella tensione (prettamente sensuale) di Giosuè verso la sua Teresina.
Quella della bio-ficiton è giocoforza una narrativa vicina alla saggistica, per contenuti e ricerche pregresse dell’autore su tempo, eventi e personaggi storici narrati, e in questi casi il rischio è, per un autore non abbastanza rodato e consapevole, quello di perdere la via della narrazione, infarcendola di nozioni fini a se stesse, non giustificate dall’intreccio o dalla trama, sbrodolamenti nozionistici che procurano sfilacciamenti della tensione narrativa. Andrea Pellegrini, però, docente di letteratura che già in passato si è cimentato con successo in un’analoga impresa, affronta la sfida e la supera con maestria, componendo un racconto efficace e godibile.
Gli inserti storici sono posti con cognizione e si apprezzano per la loro genuina tempestività, riempiono il racconto e lo rendono ancora più vivo, più autentico. È Giosuè che parla, lo si sente: il narratore. Non l’autore.
Per evitare rovesci, la prima nomina dei membri del governo è stata francese, a dire il vero. Al potere sono saliti i signori soliti, come il mio Conte Arese, ecc. Ma presto a governare sarà il popolo, noi, o almeno è quello che hanno promesso. E nei borghi come questo, nei paesi lontani dei teatri e dalla politica com’è Bergamo, il sacro fuoco della libertà si riesce ad annusare anche da una finestra socchiusa.
Lo stile ha un profumo retrò, attento alla parola, alla metrica e alla musicalità. La frase costruita con attenzione orafa, il periodo arioso, ritmato e cadenzato, volutamente più articolato e complesso della paratattica e immediata prosa moderna, sia per favorire l’immersione del lettore nel periodo storico narrato sia per un evidente amore dell’autore per la letteratura, per la parola e per i preziosi intarsi che la stessa è in grado generare.
Un libro che consiglio, e che per completezza e maturità fa riflettere su come vengano assegnati i premi letterari di prestigio in Italia.