“Un uomo”, di Oriana Fallaci | Recensione

Terminati i funerali del prologo, il romanzo compie un grande balzo indietro nel tempo e si apre con il tentativo di assassinio del tiranno greco Geōrgios Papadopulos, il 13 agosto 1968, da parte di colui che sarà protagonista assoluto, fin dal titolo, del libro: il politico rivoluzionario Alekos Panagulis.

Un uomo” è un romanzo è impostato come una sorta di lettera post mortem da parte dell’autrice Oriana Fallaci (sua compagna di vita per tre anni) che si rivolge a lui come se fosse vivo, in seconda persona. Questo libro è il tentativo di mantenere la promessa che lui le aveva strappato ancora in vita: raccontarne le gesta, la verità e le virtù, dopo la sua morte. 

Panagulis, personaggio parecchio scomodo per i tiranni che si sono succeduti sugli scranni del potere greco nel periodo dei Colonnelli (e anche nel successivo), è stato catturato dai greci di Papadopulos, incarcerato e torturato per anni, rinchiuso a Boiati in una “tomba” come la chiamavano i suoi carcerieri, il loculo strettissimo in cui era imprigionato. La prima parte del libro racconta questo periodo di segregazione: le sevizie, i trasferimenti, le torture, le privazioni. I suoi capricci, le sue testardaggini, le sue provocazioni. I suoi vani tentativi di fuga.

Quando Panagulis, con un’amnistia, esce dal carcere, l’autrice entra in scena in prima persona. Risale infatti a quei giorni il loro primo incontro. Nasce il loro rapporto, relazione malsana, il loro tossico stare insieme.
Il racconto di “un uomo” visto dagli occhi della sua compagna.

La narrazione inizialmente è di tipo giornalistico, risentendo della professione di inviata “alla guerra”, come le piace ripetere. Quindi piuttosto asciutta, cruda, riporta la notizia scevra di abbellimenti o trovate drammatiche. Poi però a fasi alterne entrano inserti che parlano di intimità, del sé, della percezione che il suo essere trasmetteva all’autrice. Qui il linguaggio si concede un registro più alto, meno materico, e la prosa prende il sopravvento sulla trama, sui fatti storici narrati.

Pur ritratto attraverso le lenti dell’infatuazione, della stima dell’autrice nei suoi confronti, il personaggio tratteggiato è un uomo tutt’altro che affascinante. È saccente, irritante, pieno di sé, molto spesso arrogante, violento e fin misogino. La sua vita, le sue trovate, i suoi eccessi e lei, Fallaci, accanto a lui, sempre e comunque, come – ed è lei a trovare questa definizione di se stessa – il suo Sancho Panza. 

Lei, viceversa, ne esce come succube, schiacciata dalla sua personalità che molti definirebbero “forte”, quando invece rappresenta l’archetipo della persona insicura: narcisista, sempre al centro e sempre a caccia dell’approvazione. 
Persino Fallaci lo descrive a un certo punto, quando lentamente inizia a rinsavire circa le sue pulsioni verso di lui, come un fallito più che un eroe, con l’elenco di tutti i suoi fallimenti, sottolineando come nella vita di quest’uomo ogni azione non sia mai stata portata a compimento.

Insomma, qualsiasi cosa tu avessi intrapreso ti sei ritrovato con un pugno di sabbia in mano e tutto era andato male, tutto, come dinamitardo e come cospiratore, come tribuno e come pensatore, come politico e come leader. Anche come leader visto che ad ascoltarti erano sempre stati pochi gregari soggiogati dal tuo fascino non attratti dal tuo messaggio, che un po’ di gente ti aveva seguito il pomeriggio del corteo e basta, sulla scia di un gesto non capito. Mai un discepolo, un vero complice al quale appoggiarti. L’unico interlocutore che ti era stato accanto nel deserto di quegli anni ero io, che però basavo il legame sugli equivoci fondamentali dell’amore. 

La parte forse più interessante e autentica del libro è quando lei, durante la sua fuga di diciassette giorni a New York, cerca di spiegarsi cosa l’abbia tenuta legata a lui fino a quel momento, perché sia rimasta invece di scappare visti i suoi tradimenti, “le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebrezze, le sue durezze di roccia, le sue chiusure da ostrica”, e le sue violenze.
Si dà come risposta l’amore. Un amore senza la fase dell’innamoramento.

Ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno.  Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le tue braccia troppo corte, le tue mani troppo tozze, le tue unghie strappate. E certo l’amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo l’abbracciavo forte come quando abitavamo la casa nel bosco d’inverno e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così.

La scrittura è lineare, chiara, a volte placida nel suo incedere, a volte brutale, a volte ammantata da riflessi aulici ai quali l’autrice non lascia mai prendere il sopravvento. 

Come un uragano che s’annuncia con l’illividirsi del cielo, un mugghiare soffocato del vento che dopo un lungo covare s’abbatte sull’immobilità delle cose allagando, schiantando rami, sradicando alberi, scoperchiando tetti, così ti preparavi a scatenarti: condensare i tuoi mille volti in un volto solo.

Analizzando lo stile, è interessante notare l’utilizzo della reiterazione, figura retorica che mira a fissare i concetti e a rinforzare la relazione con il lettore tenendone alta l’attenzione. L’autrice tende a usare un’immagine forte, che spicca nel periodo, per poi allargare il concetto espresso e riprenderlo con la stessa immagine utilizzata poco prima. Nel seguente brano, Fallaci parla di un momento estremamente animato: un duello tra automobili. Sottolinea come nonostante la situazione sia ai limiti della nevrosi e lei faccia di tutto per porre Alekos davanti all’evidenza del pericolo imminente, lui, sordo alle sue proteste, si ostini a pigiare sull’acceleratore, continuando di fatto la sfida fino a esacerbarla. 

La reiterazione, qui, ha la funzione di rafforzare il concetto e aumentare il coinvolgimento del lettore. Una breve e immediata descrizione di Alekos pallido e teso, le mani strette al volante e l’acceleratore pigiato, seguita da un flusso di coscienza inarrestabile – in cui l’autrice omette la punteggiatura per rafforzare il senso di agitazione – in un crescendo che, invece di trovare sbocco in un climax, si arresta con la ripetizione della descrizione, identica a prima, accostando l’immagine fissa di lui al tripudio di sensazioni di lei. La seconda descrizione, per il contrasto con il fiume di emozioni che lo precede, diventa ancora più potente. 

E tu lo sapevi. Però non cedevi. Il volto pallido, teso, le mani strette al volante pigiavi sull’acceleratore, di più, sempre di più, sbandando, sterzando, slittando, mentre io ti supplicavo lasciali andare per carità, ci ammazzeremo, non vedi che si fanno beffe di te, potrebbero fuggire in qualsiasi momento, non fuggono per tenerci a bada e condurci chissà dove, non puoi raggiungerli e se li raggiungi è peggio, loro sono quattro e noi siamo due, loro sono sicuramente armati e noi no, se non ci ammazziamo finendo fuori strada ci ammazzano loro e morire così è una stoltezza, perché vuoi fare morire anche me, non hai il diritto di sacrificare anche gli altri insieme a te stesso, non è giusto non è civile. E terrorizzata, indignata, ti ingiuriavo, ti maledivo, ti supplicavo. Ma tu, il volto pallido, teso, le mani strette al volante continuavi a pigiare sull’acceleratore, a sbandare, sterzare, slittare e non mi degnavi d’una risposta, d’un monosillabo, d’un gesto.

È un tributo a un uomo speciale, un registro delle sue vicissitudini perché non vadano dimenticate. Eppure non è solo questo. È un romanzo, a tutti gli effetti. C’è uno stile autoriale definito, ci sono (e visibili) le tecniche e gli espedienti per tenere alta la tensione narrativa; per questo motivo è possibile spingerci anche a fare un appunto sul versante narratologico
A mio avviso, il romanzo tarda a raggiungere il finale. 
Dal momento in cui Alekos torna in Grecia per l’ultimo mese di vita (l’intera parte sesta), il lettore sa già “come andrà a finire”. È tutto già svelato. È storia. Non c’è nemmeno più lei, rimasta in Italia, a fargli da contrappunto: non c’è più conflitto. Alekos va da solo, indisturbato, avanti verso la propria fine (e il lettore lo sa perché già anticipato nel testo) e per questo – come racconto – risulta meno interessante. 

Un libro ponderoso, complesso e ricco, scritto con una prosa raffinata e solida, che alterna momenti di cronaca, di denuncia, ad altri introspettivi e autentici, di profonda coscienza di sé.

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