Damon Galgut, splendida penna, stile e consapevolezza ad altissimo livello. Ma, diavolo, stargli dietro.
“La Promessa” è una bella saga familiare, molto inserita nel tessuto sociale sudafricano. Accessibile a tutti, ma credo che chi ha dimestichezza con questo territorio e ne conosce la storia degli ultimi trent’anni sia agevolato nella lettura.
La narrazione si scagliona in funerali. Prima è la madre a morire, lasciando tre figli. Ognuno il suo fardello emotivo sulle spalle con il quale si dovrà scontrare per tutta la vita. I capitoli sono distanziati da anni, e in ciascuno capitolo muore qualcuno dei figli. Così, con il pretesto del funerale, si fa il punto della situazione della famiglia fino a quel momento, con una promessa fatta dalla matriarca all’inizio del libro che aleggia disattesa nell’aria per tutta la durata della vicenda.
Dicevo, a proposito della penna splendida e della consapevolezza di Galgut, che è sfiancante stargli dietro. In una pagina passa dal discorso libero indiretto, al diretto, alla seconda persona, alla prima, per poi tornare alla terza persona onnisciente. Pur apprezzando il talento di cui dispone, è faticoso seguirlo.
Per essere bello, il romanzo è bello. Bella saga, bei personaggi, bello stile. Ma il tutto, a mio avviso, potrebbe essere più fruibile. Pare che l’autore si sia arroccato sulla propria magnificenza e dica al lettore: se mi vuoi capire mi segui, se non sei all’altezza è un problema tuo. Un atteggiamento un po’ alla Faulkner, alla Joyce. Che ho trovato un filo arrogante.
Consigliato? Certamente sì. La sua scrittura è notevole, e le tematiche trattate di grande interesse. Solo, affrontatelo con la giusta predisposizione.