Yasmina Reza, la vita nelle sue storie

Di appassionarmi a un autore tanto da leggerne cinque libri uno dietro l’altro non mi capitava dai tempi di Hemingway o di Dostoevskij. Non sono il tipo che legge di seguito la bibliografia completa di un autore. Salvo rare eccezioni. Di solito mi piace spaziare, scoprire ogni volta qualcosa (o qualcuno) di diverso. Stavolta, folgorazione. 

È vero che i suoi libri sono brevi e scorrevoli ed è facile leggerne a profusione, ma Yasmina Reza mi ha incantato. Ne ho letti cinque di fila e non vedo l’ora di leggere qualcos’altro di suo.
È una drammaturga francese dalla scrittura delicata e affilata che fa parlare una realtà da cui lei stessa si chiama fuori. «Non ho niente da dire» ha spiegato in occasione del ritiro del Premio Curzio Malaparte 2021, «al di fuori del mio lavoro, non ho opinioni particolari su niente e il mondo per me resta un enigma». 

Eppure questo mondo lo indaga a fondo, addentrandosi nelle dinamiche della medio-borghesia, evidenziandone le incoerenze, tratteggiandone la superficie laccata e scavando nella quotidianità. Ed è proprio da questo suo lavoro che qualcosa di lei e del suo pensiero emerge. Dai temi che tratta si può intuire qualcosa di un’autrice a cui non piace prendersi troppo sul serio. Una certa disillusione per quanto riguarda i rapporti sociali, affettivi, lavorativi o di amicizia, per esempio. O il tema dell’abitudine nella coppia per preservare i piccoli progetti comuni, una sorta di rassegnazione coniugale. Compromesso che governa (e sostiene) anche le amicizie di vecchia data, adagiate su solchi rodati e affidabili, che sebbene talvolta vengano scombussolati (temporaneamente), tornano sempre a insabbiarsi in un tacito consenso tra le parti in causa. Paura della solitudine, forse. Con l’ombra di una morte che aleggia invisibile, che si percepisce soltanto. Un’ombra che si muove sullo sfondo della sua prosa. Forse un modo di Reza per beffeggiarla, per sminuirne la portata e la paura che le incute. Ma tant’è, la sua presenza è quasi tangibile.

Yasmina Reza ha iniziato la sua carriera come attrice. Poi si è detta: “Aspettare non può essere un destino”. E ha iniziato a scrivere per il teatro.

Ritratti di vita reale, dunque, spaccati di vita e di un’epoca, quella contemporanea, fatta di intrighi, tradimento, facciate e affetti utili a rimanere a galla. L’umanità individuale che ha bisogno per esistere dell’umanità altrui. Non saprei consigliarvi un titolo in particolare, perché ognuno è a modo suo un mondo a sé stante. Il suo libro più famoso è certo “Il dio del massacro”, da cui è stato tratto il film di Roman PolanskiCarnage”. Poi c’è il bellissimo Felici i felici, venti racconti autoconclusivi di vite intrecciate, in cui Reza saltella tra registri linguistici con naturalezza e maestria. Arte, la pièce teatrale che l’ha consegnata alla celebrità internazionale, storia di un’amicizia abituata a seguire binari fissi e precisi ma corrosi dall’ipocrisia e dalla falsità. Che a un certo punto deraglia, e poi torna a posto.

Ma forse il mio libro preferito di Yasmina Reza è Babilonia, un romanzo in cui una donna ordinaria, una donna come tante, si lascia coinvolgere in un’attività tanto involontaria quanto criminale compiuta dal vicino di casa. Un uomo che conosceva appena. Il caso, che porta due solitudini a solidarizzare, a tentare di sostenersi, l’una con l’altra, fino all’inevitabile resa finale. Un racconto che unisce uno humor grottesco, quasi paradossale, alla tragica dimensione della vita ordinaria, quella vita, appunto, così poco disposta al rischio del “dopo”, dell’ignoto, che si rifugia nel compromesso. E nell’abitudine, che feroce la divora giorno per giorno. 

Ciò detto, se non l’avete ancora fatto Iniziate da dove volete ma leggete qualcosa di suo. Ne vale certamente la pena.

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