La ricerca dietro lo stile del romanzo “Paesi tuoi” di Cesare Pavese

La trama è semplicissima. Berto, un meccanico torinese, conosce in carcere Talino, tipo poco raccomandabile che, una volta usciti, lo porta con sé in campagna dove suo padre possiede terre e accetta lavoranti. Qui conoscerà la sua ampia famiglia, i genitori e le sorelle. Una di queste è la selvatica Gisella, per la quale ha fin da subito un’attrazione. Talino, già autore di un’aggressione sessuale ai danni della ragazza, porrà prematuramente fine alla loro relazione uccidendo Gisella con un tridente da fieno.
Si trattano le tematiche care a Pavese: la solitudine, il ritorno alla terra natale, il confronto tra città e campagna, la campagna stessa. 

Ma ciò che colpisce maggiormente è l’uso della lingua.
Conosciamo Cesare Pavese come un illuminato, delicato intessitore di frasi che sembrano fiori. Raffinati intarsi sintattici ci accompagnano in una profonda discesa introspettiva nei personaggi, solitamente nel protagonista. 
In questa prima prova narrativa, però (Paesi tuoi è stato pubblicato nel 1941), l’autore utilizza un registro basso – è scritto in prima persona e il protagonista-narratore è poco istruito – e i personaggi sono più abbozzati che approfonditi. 
A colpire, appunto, è la maestria, l’accuratezza con cui questo registro viene costruito e reso. 

Approcciandosi all’analisi dello stile di Paesi tuoi, il nome Giovanni Verga è il primo a venire in mente. Verga è il maggior esponente del verismo, il cui stile è caratterizzato dalla tecnica della regressione. L’autore, aggirando il proprio (altissimo) grado di cultura, abbassa il registro linguistico fino a conformarlo a quello di un popolano dell’epoca, a cui affida il compito di narratore, e quindi la voce narrante. Il risultato, se il processo fosse stato elaborato in maniera meccanica, senza un brillante pensiero alla base, sarebbe un blocco dialettale incomprensibile e non fruibile. L’arte di Verga è stata usare uno stile comprensibile pur rendendo riconoscibile che a narrare fosse un popolano, non adeguando lo stile del popolano a quello aulico degli autori dell’epoca ma avvicinando il proprio a quello del volgo.
Nel suo caso il territorio descritto era la Sicilia rurale, e il siciliano il dialetto di partenza. 

L’avevano comprato alla fiera  di Buccheri ch’era ancor puledro, e appena vedeva una ciuca, andava a frugarle le poppe; per questo si buscava testate e botte da orbi sul groppone, e avevano un bel gridargli: “Arriccà!”. 

Se la prima parte della frase ricalca il ritmo, la cadenza, il gusto sintattico del dialetto, alla fine, con disinvoltura, l’autore inserisce una parola composta e grandemente significativa: Arriccà ci riporta in un istante nel luogo e nel comparto sociale trattati. Arrì è un comune incitamento alle bestie da tiro che, unitamente all’avverbio di luogo dialettale cà (qua), ci configura l’ambiente entro cui si svolge la vicenda narrata, creando per il lettore una vicinanza con l’episodio e il luogo narrati difficilmente conseguibile con ilbello stile, canone a cui la letteratura del periodo (fine Ottocento, inizi del Novecento) si adeguava fedelmente. 

Cesare Pavese

Pavese, dal canto suo, autore (involontario?) neorealista che ha come ubicazione la succitata campagna langarola, fatta sua l’esperienza verghiana, la riconduce nel suo territorio. 
Rimane perciò l’intenzione di ricalcare la sintassi sulla forma parlata della località di riferimento, le Langhe – con effetti non sempre piacevoli da leggere – ma, invece di inserire vocaboli dialettali, ne utilizza alcuni che appartengono sì alla lingua italiana ma sono tipici del territorio. Il termine “goffo”, per esempio, piemontesismo molto ricorrente nel testo, non è utilizzato per descrivere qualcuno impacciato (come in italiano), ma con un’accezione canzonatoria, denigratoria (‘zotico’, ‘poco istruito’), come avviene nel dialetto di origine. Nel brano seguente, ad esempio, si nota la costruzione sintattica aderente a quella del parlato (con le incidentali di secondo grado, i modi scorciati ed ellittici tipici dell’oralità) e le espressioni vernacolari di cui abbiamo appena parlato.

L’Adele  pareva  che  ridesse  allo  scuro,  come  fanno  le  donne  quando  mettono  su  un  uomo.  Io  la guardo staccando la sigaretta a mano riversa e mi viene in mente quando Talino rideva perché l’avevano prosciolto; e allora penso che, goffo com’era, era riuscito proprio a farmela. Mi viene la rabbia perché adesso capivo cosa aveva gridato Gisella, e  che  non  era  per  il  padre  che  mi  aveva  portato,  ma  per  farsi  guardare  la  pelle  da  me.

A questo quadro generale dello stile di Paesi tuoi, è doveroso aggiungere un ulteriore tassello imprescindibile. L’influenza americana. 
Pavese era traduttore dei più grandi autori della letteratura americana moderna (Hemingway, Steinbeck, Faulkner, ecc.) e la loro lezione è impressa in maniera marcata nello stile usato in questo romanzo. Un esempio:

Ecco: vide quella ragazza vestita di rosso. Bastardo d’uno scemo com’è, vuole toccare tutto quello che lo colpisce. Semplicemente sentire al tatto. E così tese le mani a tastare quell’abito rosso e la ragazza cacciò uno strillo, e allora Lennie fu tutto sconvolto e non lasciò la presa perché questa ragazza è la sola cosa che gli stia in mente. 
Uomini e topi, J. Stenibeck, trad. C. Pavese

C’è il luogo e ci sono i personaggi, la campagna e i braccianti al limite della legalità, e lo stile, che vuole avvicinare il lettore alle vicende narrate. Ci sono i campi, il lavoro nei campi, i problemi con l’amicizia, con la legge, con la fiducia, la solitudine interiore, la violenza sulla donna, la donna stessa, che se non al lavoro in un campo o a casa a cucinare è considerata dagli uomini una poco di buono. 

Paesi tuoi rappresenta un saggio notevole delle capacità letterarie che via via, nel corso della sua carriera, Pavese ha affinato, elaborato e reso personali, fino a raggiungere lo stile solenne e poetico che caratterizza la sua prosa. 

Francesco Montonati

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