“Sotto la pelle”, di Michel Faber | Recensione

ALLARME SPOILER.
Se avete in programma di leggere Sotto la pelle evitate questa recensione. Vi rovinereste (vi rovinerei, prendiamoci le nostre responsabilità!) la lettura. Tornateci una volta che lo avrete letto o andate avanti se non avete intenzione di farlo. Uomo avvisato.
A mia discolpa posso dire che è molto difficile (e piuttosto inutile) parlare del libro, di questo libro, senza svelarlo. 

La trama è piuttosto semplice. 
Isserley raccoglie autostoppisti sulla A9, una statale poco trafficata nelle Highland scozzesi. Indossa un’ampia scollatura, ha un seno importante ma – a detta di chi raccoglie per la strada – non una grande bellezza, con tutte quelle cicatrici sul viso. Inizia a parlare con loro, li intrattiene, ne capta le informazioni che le servono per sapere se procedere o meno con il suo lavoro e, se la persona agganciata risponde a una serie di caratteristiche, fa scattare due aghi da sotto il sedile del passeggero. Due aghi che spruzzano veleno. Tramortito, il malcapitato sarà portato presso la farm, dove si procederà al resto dell’attività. 
Isserley è un’aliena, che cattura Vodsel (uomini) per farne carne da mandare al suo pianeta. In cambio, l’azienda produttrice di carni Vess Incorporated le fornisce un tetto e il sostentamento quotidiano.

Il romanzo si apre con Isserley già in macchina pronta a raccogliere il primo autostoppista, e dalle prime battute non lo diresti un romanzo di fantascienza. Il piano narrativo è reale, persone vere, strade poco trafficate, cielo grigio, Scopriremo solo più avanti che non tutto è come sembra. 

Le trovate più riuscite sono, appunto, questi capovolgimenti basati su fraintendimenti semantici.
Mi spiego. Leggi Isserley e immagini una donna, leggi umani e intendi i bipedi che popolano la terra, leggi nave cargo e immagini un transatlantico. Invece no perché, sottilmente giocato, il filo narrativo porta volutamente il nostro cervello a interpretare erroneamente i dati forniti, attraverso la logica cognitiva che ci accompagna dalla nascita: l’essere umano sta in piedi e non ha la pelliccia, per esempio. Solo a metà del romanzo veniamo a conoscenza del fatto che quelli in esso citati come “esseri umani” sono (per noi terrestri) alieni, hanno la coda, sono quadrupedi e coperti di pelliccia. E la nave non va per mari, ma per cieli (astronave, diremmo noi terrestri). E Isserley è una di queste bestie (a cui, per motivi professionali, viene praticato ogni tipo di chirurgia estetica – dall’amputazione della coda e del sesto dito alla protesi al seno – con lo scopo di renderla più possibile somigliante a un vodsel). 
È un romanzo fantascientifico molto vicino al reale, anche per l’intento dell’autore di giocare con questo tipo di fraintendimenti e depistaggi. Un esempio:

Quando avvistava un autostoppista per la prima volta Isserley non si fermava mai, si concedeva un po’ di tempo per prendergli le misure. Quel che cercava erano i muscoli: un pezzo d’uomo ben piantato sulle gambe. Di esemplari gracili, pelle e ossa, non se ne faceva nulla.

Questo è l’incipit. Poi prosegue, racconta di Isserley che, da sola, adesca uomini stazzati incantandoli con la vista del suo prosperoso seno in bella evidenza. Il lettore è incuriosito e indotto a pensare che si tratti magari di una prostituta, visto che si parla di una cosa quotidiana, oppure di una donna di grandi e inappagati appetiti sessuali… Nessuno può immaginare che quel seno sia frutto di chirurgia aliena. 

Il depistaggio è una delle chiavi narrative più forti nel romanzo, un gioco che tollero poco, quando è esasperato. In Sotto la pelle non lo è, mantiene il giusto equilibrio e risulta se mai interessante e coinvolgente. 

Un altro aspetto efficace del testo è la narrazione in terza persona con focalizzazione interna alternata. Per esempio, quando la protagonista raccoglie un autostoppista, vediamo il suo punto di vista, recepiamo le sue prime impressioni e le sue aspettative, le sue preoccupazioni. Poi il punto di vista si ribalta in maniera chiara – forse anche troppo, con uno spazio paragrafo a evidenziarla – ed è il passeggero a vivere le proprie emozioni, a sciorinare i propri pensieri e, spesso, le sue intenzioni, non sempre pacifiche. 

È interessante lo scambio di percezioni in sé, ed è inoltre efficace in termini narrativi perché mantiene sospeso il lettore nell’incertezza delle intenzioni dell’uno e dell’altro personaggio. 

Ciò che invece stona, a mio avviso, è lo stile letterario, che ho trovato spurio e poco consapevole. In una parola, acerbo. 
Se i primissimi capitoli funzionano – parti narrative, avvenimenti, successione di fatti in tempo reale – quando il romanzo entra in una fase meno dinamica, più introspettiva, quando cioè il gioco si fa duro, i limiti della scrittura si fanno sentire. Queste parti si dilungano in considerazioni e osservazioni piuttosto sterili e un po’ troppo basiche per essere interessanti, e in dialoghi deboli. Molto deboli. Ci sono, in pratica, molti degli errori più frequenti che segnalo agli autori di cui revisiono i testi in fase di editing (ho scritto un post su questo). A cominciare dalle didascalie, che spiegano (inutilmente) ogni gesto dei personaggi (vodsel o alieni che siano) coinvolti nello scambio, che sottolineano aspetti che il lettore può immagiare grazie alla battuta del personaggio. Inoltre ogni didascalia dialogica contiene un sinonimo di “disse”, cosa che alla lunga stanca (rispose, riattaccò, biascicò). Uno dei termini più usati dallo scrittore inesperto (roba che quando ne vedo nei testi pubblicati chiudo il libro e mi concedo una pausa di decompressione) è “ringhiò”. Se l’effetto scenico di questo verbo può far colpo su un lettore cinquenne – tutti ricordano la nonna di Cappuccetto rosso –, su un lettore adulto e consapevole molto meno, può anzi arrivare a infastidirlo. Eccomi! E in questo testo è presente cinque volte in poco più di duecento pagine.

Il romanzo è interessante e può risultare una lettura piacevole, anche se un piacere a mio avviso altalenante. Questo al netto dell’intento moralistico. Il romanzo è stato infatti da alcuni interpretato come una voce di denuncia contro gli allevamenti intensivi, la brutalità dell’uomo sulla donna e altre problematiche. Intento moralistico che non ho trovato eccessivo (per un romanzo di narrativa) ma neanche particolarmente illuminante. 

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