“Sillabario all’incontrario”, di Ezio Sinigaglia | Recensione

Candidato al Premio Strega 2023, Sillabario all’incontrario (TerraRossa Edizioni) è frutto del valore terapeutico della scrittura. Un libro che non vuole essere catalogato, una miscellanea tra autobiografia, autoanalisi, saggio e diario con una dichiarata – ma appena accennata – ispirazione al romanzo giallo. 
Durante un malessere di natura psicologica, una depressione o qualcosa di simile, tra il 1996 e il 1997 Ezio Sinigaglia si ritira lontano dal caos cittadino e dalla frenesia moderna, con lo scopo di ritrovare i tempi e i luoghi a lui più congeniali. Fitti di gatti, ricordi e vegetazione. La Sardegna, luogo in cui ha vissuto quasi vent’anni, che ha cambiato il suo approccio con la natura e ha posto le basi per il suo amore verso le piante come vive portatrici di bellezza. 
Alla lettera G come giallo si legge: 

Una delle mie maggiori fonti di allegrezza, da quando vivo in Sardegna, è la reperibilità immancabile del giallo: il mio sguardo assetato di sole, nelle giornate grigie, cerca il giallo, e qui lo trova sempre: la mimosa, l’euforbia, la ginestra, le margherite di campo che, fra maggio e giugno, rivestono enormi estensioni di paesaggio, senza fine, come una neve gialla: solo, sgargiante, fin troppo vistoso, un papavero, ogni mille passi, fiammeggiante e sfrontato come un assassino: lo stesso contrasto fra giallo e rosso si può apprezzare d’autunno nel corbezzolo: i fiori del corbezzolo sono insignificanti, ma i frutti sono una delle meraviglie più fanciullesche del creato: in questa stagione, a metà novembre, il corbezzolo sembra perpetuamente addobbato per una festicciola di bambini…

La singolarità del libro sta nella struttura, l’impianto. È in effetti un vero e proprio sillabario, segmentato, frammentato, scisso in tasselli nominalmente indicati da lettere – Z come zoo, H come humor –, pretesti narrativi che si traducono in racconti, scansioni temporali e tematiche utilizzate per raccontare (raccontarsi) e analizzare la propria condizione.

Quando il libro è stato scritto, Sinigaglia era ancora un autore non pubblicato e la lettera I, per esempio, è dedicata a questo: I come inedito

Ecco un buon punto di vista sotto il quale osservarmi: l’insuccesso. un cinquantenne d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla, come se il suo stato civile fosse una certificazione d’infelicità ufficiale, che rendeva superflua ogni ulteriore indagine: così di me si presume ch’io soffra segretamente del mio anonimato e della mancata pubblicazione, nonché dei miei romanzi, delle relative recensioni encomiastiche su riviste e quotidiani: mentre io soffro di tutt’altro, e in misura assai più lieve, assai più innocua per il fegato di quanto si presuma: e assai più dannosa, invece, per il cuore.

Una raccolta di pensieri esposti (e disposti) con ordine, e per mezzo della consueta eleganza stilistica a cui l’autore ci ha abituato. Tuttavia il libro “non è la traduzione in prosa di un progetto narrativo”, ci fa sapere dalle pagine del libro, e noi gli crediamo, perché non è importante conoscere la verità ma riconoscere quello che arriva. Schivando lo humor e le trovate metanarrative, l’amore per le arti, le citazioni e i termini vicini al classico, si percepisce una sofferenza di fondo, l’urgenza di superare un momento. L’inadeguatezza a un mondo che corre tutt’intorno e lontano, un senso di innato spaesamento. 

Un’autoanalisi, quando resa pubblica, ha in sé qualcosa di molto coraggioso, perché, al di là della sana necessità di nascondere qualcosa, ci si spoglia davanti al mondo. Ci vuole coraggio. Ci vuole coraggio anche a presentarla così, scardinando con garbo i canoni estetici letterari, la struttura e la sintassi con una complessa profusione di due punti e l’assenza pressoché totale di punti a capo. Sinigaglia vuole portare con sé il lettore, dentro di sé, ma alle sue condizioni, e il lettore non può che docilmente seguirlo. 

Sillabario all’incontrario è la testimonianza di un amore per la letteratura. Un amore smisurato e incondizionato, che potremmo definire agape, in cui l’autore si rifugia per indagare la causa del suo malessere e cercare di guarirne. Come il detective protagonista di un giallo, per trovare il colpevole deve necessariamente avvicinarglisi, capirlo, e per farlo è costretto a scavalcare il muro (o il canale d’acqua) che li separa, passando dalla sua parte, sfiorandone il lato oscuro. Come in ogni buon giallo, la fine è nota ma bisogna risalire all’origine per trovare la causa. Così, in questo gioco a ritroso, nell’ultima parte del libro Sinigaglia apre le porte alla propria intimità, spingendosi indietro negli anni fino all’infanzia, alle prime scoperte erotiche e alle ultime esperienze di strada che rivive ed esplora, in modo intimo, ma al contempo facendone affiorare l’universalità.

Pensieri e argomentazioni di natura profonda resi in maniera mai troppo seriosa, divagazioni letterarie per il gusto di spaziare e per l’amore del mezzo, la letteratura, appunto. E anche se il colpevole del malessere, al termine del libro, non si troverà, l’autore/narratore raggiungerà l’agognata guarigione. Era questa, sin dall’inizio, la cosa più importante. 

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