A questo punto del nostro viaggio nella struttura di un romanzo in termini narratologici, incontriamo la sequenza, l’unità minima del testo che abbia senso compiuto. Ne esistono di vari tipi e, al fine di regolare l’andamento del romanzo, i tempi e il ritmo, è importante conoscerli, saperli distinguere e capirne la funzione. Eccoli.
SEQUENZE NARRATIVE
Raccontano eventi, situazioni e azioni.
DESCRITTIVE
Descrivono persone, oggetti o luoghi. Sono chiamate espositive le sequenze che contengono informazioni per il lettore, utili a comprendere la storia.
DIALOGICHE (o discorsive)
I personaggi parlano tra di loro in forma diretta. Con le virgolette e tutto il resto. Parleremo approfonditamente dei dialoghi in un prossimo post.
RIFLESSIVE
Riflessioni e pensieri dei personaggi o del narratore.
Ora che conosci i tipi devi sapere che le sequenze si possono dividere ancora in due gruppi: statiche e dinamiche.
Dinamiche portano avanti la narrazione, la vicenda, gli eventi.
Statiche rallentano, fermano, stagnano.
Adesso prova a esaminare il testo seguente. Cerca di suddividerlo in sequenze e di individuare il tipo di ciascuna di esse.
Era la prima volta che saltava la luce. Mario aveva sempre avuto paura del buio, gli era rimasta da quando sua madre lo chiudeva nello sgabuzzino insieme a scope, detersivi e scarpe perché aveva picchiato la sorellina Silvia. Dal giorno del suo trasferimento in quell’appartamento non aveva mai spento la luce. Tre anni di luce perpetua, e gli andava bene così. Non era nemmeno disposto a cedere alla tentazione delle luci di Natale, con i loro pericolosi guizzi a intermittenza. Avrebbe voluto dire attimi di luce spenta, avrebbe significato aspettare quegli attimi – durante i quali i piccoli neon attorcigliati ai rami dell’abete in plastica cinese si spegnevano e lasciavano la stanza nel buio totale – con il fiato sospeso, l’ansia che non si riaccendessero più. Niente luci di Natale, l’albero sarebbe bastato. Abitava da solo, del resto, nessuno si sarebbe lamentato.
In quel momento, solo il lampione dalla strada diffondeva un fioco barlume in casa.
Mario ebbe un sussulto. Da fuori era arrivato un rumore, come un tonfo. La sveglia sul comodino segnava l’una e ventisette. Si avvicinò alla finestra, guardando d i sbieco, in modo da non essere visto da fuori. Da quella posizione non vedeva nulla. Prese coraggio e si mise con la faccia davanti alla finestra. Sul marciapiede coperto di neve un uomo con un cappotto scuro lo fissava. Aveva il viso coperto dalla mascherina chirurgica con filtro omologato e un cappello di lana abbassato sulla fronte. Raccolse qualcosa da terra e la lanciò nella sua direzione. Il vetro esplose sulla sua testa e Mario rimase senza fiato. Si abbassò per qualche istante sotto il davanzale, un sasso grande come un’arancia giaceva sul pavimento in mezzo ai frammenti di vetro. Rialzò la testa, l’uomo era ancora lì. Lo fissava. Mario aprì la finestra con la mano che tremava.
«Ehi! Cosa fai, imbecille!»
L’uomo lanciò un altro sasso che finì contro il muro, rimbalzò e affondo nella neve da qualche parte.
«Smettila subito ho detto!»
«Smettila tu, idiota» rispose l’uomo abbassandosi a cercare in terra un’altra pietra.
«Chiamo i carabinieri».
Quello allargò le braccia e gli puntò l’indice. «Se la tocchi ancora sei morto».
«Ma di che diavolo stai parlando?»
L’uomo prese a correre a grandi balzi sulla neve. Raggiunse una Yaris grigia, entrò, ma l’auto non si mosse. Abbassò il finestrino e iniziò a fargli gestacci senza senso. Mario non riusciva a distinguere che gesti fossero ma escluse che fossero amichevoli. Il finestrino si alzò.
Dopo qualche minuto l’auto era ancora ferma, posteggiata davanti al palazzone in cui abitava Silvia.
Era un palazzo di dieci piani e a quest’ora, con quel cielo basso del colore degli incubi, spiccava come un megalite immenso e funereo, un mausoleo, un raccoglitore di anime. Si era alzato un vento gelido, un freddo di morte, urlava e frustava fiocchi di neve. La banderuola scientifica sul davanzale puntava a nord est. L’auto era ancora immobile. Mario chiuse la finestra e prese il cellulare. Il display segnava una chiamata non risposta. Numero sconosciuto.
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Di seguito, lo stesso testo con le sequenze segnalate.
Era la prima volta che saltava la luce. Mario aveva sempre avuto paura del buio, gli era rimasta da quando sua madre lo chiudeva nello sgabuzzino insieme a scope, detersivi e scarpe perché aveva picchiato la sorellina Silvia. Dal giorno del suo trasferimento in quell’appartamento non aveva mai spento la luce. Tre anni di luce perpetua, e gli andava bene così. Non era nemmeno disposto a cedere alla tentazione delle luci di Natale, con i loro pericolosi guizzi a intermittenza. Avrebbe voluto dire attimi di luce spenta, avrebbe significato aspettare quegli attimi – durante i quali i piccoli neon attorcigliati ai rami dell’abete in plastica cinese si spegnevano e lasciavano la stanza nel buio totale – con il fiato sospeso, l’ansia che non si riaccendessero più. Niente luci di Natale, l’albero sarebbe bastato. Abitava da solo, del resto, nessuno si sarebbe lamentato.
In quel momento, solo il lampione dalla strada diffondeva un fioco barlume in casa.
Mario ebbe un sussulto. Da fuori era arrivato un rumore, come un tonfo. La sveglia sul comodino segnava l’una e ventisette. Si avvicinò alla finestra, guardando di sbieco, in modo da non essere visto da fuori. Da quella posizione non vedeva nulla. Prese coraggio e si mise con la faccia davanti alla finestra. Sul marciapiede coperto di neve un uomo con un cappotto scuro lo fissava. Aveva il viso coperto dalla mascherina chirurgica con filtro omologato e un cappello di lana abbassato sulla fronte. Raccolse qualcosa da terra e la lanciò nella sua direzione. Il vetro esplose sulla sua testa e Mario rimase senza fiato. Si abbassò per qualche istante sotto il davanzale, un sasso grande come un’arancia giaceva sul pavimento in mezzo ai frammenti di vetro. Rialzò la testa, l’uomo era ancora lì. Lo fissava. Mario aprì la finestra con la mano che tremava.
«Ehi! Cosa fai, imbecille!»
L’uomo lanciò un altro sasso che finì contro il muro, rimbalzò e affondo nella neve da qualche parte.
«Smettila subito ho detto!»
«Smettila tu, idiota» rispose l’uomo abbassandosi a cercare in terra un’altra pietra.
«Chiamo i carabinieri».
Quello allargò le braccia e gli puntò l’indice. «Se la tocchi ancora sei morto».
«Ma di che diavolo stai parlando?»
L’uomo prese a correre a grandi balzi sulla neve. Raggiunse una Yaris grigia, entrò, ma l’auto non si mosse. Abbassò il finestrino e iniziò a fargli gestacci senza senso. Mario non riusciva a distinguere che gesti fossero ma escluse che fossero amichevoli. Il finestrino si alzò.
Dopo qualche minuto l’auto era ancora ferma, posteggiata davanti al palazzone in cui abitava Silvia.
Era un palazzo di dieci piani e a quest’ora, con quel cielo basso del colore degli incubi, spiccava come un megalite immenso e funereo, un mausoleo, un raccoglitore di anime. Si era alzato un vento gelido, un freddo di morte, urlava e frustava fiocchi di neve. La banderuola scientifica sul davanzale puntava a nord est. L’auto era ancora immobile. Mario chiuse la finestra e prese il cellulare. Il display segnava una chiamata non risposta. Numero sconosciuto.
Il testo segnalato in verde inizia con una sequenza mista, espositiva all’inizio con un guizzo descrittivo finale. Fin qui tutto fermo.
L’azione inizia nella parte segnata in rosso, la sequenza narrativa, con degli inserti descrittivi – brevi pennellate – a introdurre un nuovo personaggio.
La vicenda, nella sequenza dialogica segnata in blu, non si sviluppa molto. Eppure l’azione del lettore è stimolata: conosce i personaggi, vede come reagiscono. Mario ha sì paura del buio, ma non di uno sconosciuto che lo aggredisce in piena notte. Gli risponde per le rime, si nasconde un poco, ma il suo istinto è quello di reagire. Lo sconosciuto, dal canto suo, non sembra impaurito dalla minaccia dei carabinieri. E intanto ficchiamo nel discorso un dato di suspense (se la tocchi ancora). Di chi parliamo? Di una donna che non conosciamo? Di sua sorella, che da piccolo picchiava? C’è da indagare.
Il senso di morte sospesa ce lo dà il palazzone di fronte (sequenza descrittiva), che si staglia come una lapide contro il cielo color dell’incubo (sequenza statica).
Prova a evidenziare il tuo testo come ho fatto qui, ti accorgerai facilmente se una sequenza è troppo lunga rispetto alle altre, e potrai lavorare per stabilire un equilibrio delle parti, dinamiche e statiche. Non c’è nessuna regola che stabilisca il giusto rapporto tra sequenze, dipende da te, dal tuo stile, ma se noterai una pagina di un colore e tre righe di un altro sarà più semplice capire come intervenire.
Sarà un’alternanza tra acceleratore, freno, acceleratore, prima, freno. Sarà tutto un alzare i giri fino al climax finale. Arriveremo fino alla quinta, fino a fondere il motore? Questo sarai tu a deciderlo. L’importante è che tu abbia gli strumenti per farlo. L’organizzazione delle sequenze è uno di questi.
Alla prossima, e buona scrittura!
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