Recensione | “La bella estate” di Cesare Pavese

La bella estate” di Cesare Pavese è il romanzo di formazione da cui nel 2023 è stato tratto l’omonimo film. 

Pubblicato per Einaudi nel 1949, La bella estate è il romanzo breve di formazione che dà il titolo a una silloge composta da tre racconti. Il titolo richiama il momento dell’anno in cui è più facile che sboccino amori e nuove esperienze, che si rinnovino promesse e illusioni.

Nell’estate del 1938, la giovane campagnola Ginia sogna una vita diversa, ravvivata dall’arte e da un respiro di libertà. Giunta a Torino per cercare lavoro, stringe amicizia con una ragazza più grande di lei, Amelia, che lavora come modella per alcuni pittori e che la introduce nell’ambiente artistico della città. Ambigue serate in compagnia e accese discussioni si intervallano a momenti di ozio e indolenza. È in questo scenario che conosce Guido, il giovane artista di cui si innamora, e grazie al quale conoscerà amore e disillusioni.

Diversamente delle opere pavesiane più note, anziché in collina o in realtà rurali, La bella estate si svolge in città, Torino. Se la collina e la campagna langarole di Pavese sono luoghi popolati da personaggi affondati nella semplicità contadina, genuini e reali, custodi dei valori sicurezza e serenità, in La bella estate la città assume i contorni contaminati e dissoluti di una realtà ai limiti. Indagata è quella giovane generazione bohemienne di artisti che popola atelier e conduce vite senza un reale spessore. Personaggi corrotti dai vizi, privi della capacità di costruzione e di presa di responsabilità, inafferrabili e inaffidabili. 

Tra questi rappresentanti di un’umanità inquieta e incerta, si introduce la giovane campagnola Ginia, piena di ingenue illusioni e aspettative

La scrittura di Pavese, limpida e asciutta, coglie con grande sensibilità le sfumature psicologiche dei personaggi. Le descrizioni sono vivide e evocative, restituendo al lettore l’atmosfera della Torino di fine anni ’30. Chi è alla ricerca della forma pulita e melodica, dello stile poetico evocativo del Pavese della Luna e i falò, qui non lo troverà.

Incontrerà però lo stesso Pavese che affonda nell’animo umano, vi impregna la penna e lo restituisce sulla pagina. Con tutte le sfaccettature e i simbolismi che necessita per essere espresso. 

A un primo approccio la scrittura, a livello di forma, appare semplice e diretta, forse non così sofisticata come ci si potrebbe aspettare dall’autore. Un espediente che gli permette di calarsi nelle profondità dei temi trattati senza affrontarli in modo diretto, di evocare significati nascosti, non immediati. Che affiorano lenti, a poco a poco, che si svelano si fanno apprezzare solo con una lettura attenta e riflessiva. Una lettura attiva.

Tra le pagine di La bella estate – e nella vita della protagonista – aleggia un’angosciosa depressione, che richiama una certa vena autobiografica che lega pressoché tutte le opere di Cesare Pavese.

 La Bella Estate, da cui nel 2023 è stato tratto il film omonimo per la regia di Laura Luchetti,  è un’opera che merita di essere letta e riletta, in cui sarà possibile cogliere ogni volta nuove sfumature e significati nascosta. Una protagonista per cui è impossibile non provare empatia, un romanzo che, pur nella sua apparente semplicità, riesce a toccare corde profonde e a far riflettere sul senso della vita e sulla complessità delle relazioni umane.

Ioscrittore 2025, come funziona quest’anno (e qualche consiglio)

Al via la nuova edizione 2025, c’è tempo fino al 10 aprile 2025 per inviare il proprio incipit e partecipare al concorso Ioscrittore per aspiranti autori. Ma cos’è, come funziona, quali tattiche adottare? Io ho partecipato due volte, entrambe le volte arrivando in finale. Ecco i miei consigli.

Cos’è Ioscrittore?
Ioscrittore è il concorso per aspiranti scrittori promosso dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Con 54.529 partecipanti nelle edizioni passate, è uno dei più seguiti in Italia e mette in palio la pubblicazione presso una delle case editrici del Gruppo. In realtà, sottolineano gli organizzatori, non è solo un concorso, ma una vera e propria operazione di scouting, costantemente monitorata dagli editor di GeMS.

Come funziona Ioscrittore?
Fino al 10 aprile 2025 puoi caricare il tuo incipit sulla piattaforma. Il file, che deve seguire alcune norme grafiche descritte sul regolamento, dovrà contenere le prime pagine del tuo romanzo (tra le 30.000 e le 60.000 battute).  Ricorda che il testo dev’essere in Times New Roman, corpo 12 pt, e il file in RTF (Rich Text Format), uno dei formati tra cui puoi scegliere quando salvi da Microsoft Word o Open Office.
Inviato l’incipit alla redazione di Ioscrittore, ad aprile inizierà il lavoro. 

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Sul tuo account personale della piattaforma Ioscrittore saranno caricati una decina di incipit (potrebbero essere anche meno) di altri partecipanti. Avrai tempo fino al 5 giugno 2025 per leggerli tutti, commentarli, e dare un voto secondo alcuni parametri che ti saranno forniti. Il tuo incipit sarà a sua volta letto da una decina di partecipanti (anche qui il numero può variare leggermente) e commentato. 
Consegnati i tuoi – e solo in questo caso – al termine della prima fase riceverai i commenti sul tuo incipit. In base ai giudizi sarà stilata una classifica (invisibile ai concorrenti) e i primi quattrocento (l’ultima edizione erano solo trecento) incipit classificati passeranno alla fase finale. 
E qui inizia il bello. 

Le possibilità a questo punto sono tre. 
La prima
: non sei passato, fattene una ragione, leggi i commenti e cerca di migliorare per l’anno prossimo. 
La seconda: non sei passato, ma se vuoi puoi continuare come lettore (potrai ancora giudicare, ma sarai fuori gara). 
La terza: evviva, sei passato! Festeggia con gli amici e rimettiti all’opera! La fase più faticosa comincia adesso. 

È il momento di consegnare il plico. Carichi sulla piattaforma la tua opera completa (hai tempo fino al 15 luglio 2025) e qualche giorno dopo ricevi fino a quindici romanzi altrui, che dovrai leggere e commentare, come hai fatto con gli amici dell’incipit, entro il 23 ottobre 2025.
A questo punto intervengono gli editor delle famose case editrici e stilano un elenco di dieci finalisti (di questi, tutti vedranno il proprio manoscritto pubblicato in versione digitale) che durante un evento presso BookCity Milano 2025 saranno resi noti.
Il vincitore definitivo, quello a cui sarà pubblicato il romanzo in forma cartacea sarà proclamato entro il 17 dicembre 2025.

I pro e i contro del concorso Ioscrittore. 

Pro
Ioscrittore è gratuito, è seguito da editor di grandi case editrici, alcuni partecipanti delle edizioni passate sono diventati poi autori di successo (Silvia Celani e Ilaria Tuti, per esempio), e puoi ottenere svariati pareri sul tuo romanzo.

Contro
Avrai da leggere e commentare 10 incipit e, se passi in finale, 10 romanzi interi. Nelle intenzioni degli organizzatori i voti dovrebbero essere dati con criterio, competenza e onestà, ma non sempre accade. Spesso i commenti non sono leali e, spiace dirlo, nemmeno competenti. 

E ora alcuni consigli per avere qualche probabilità in più nel concorso Ioscrittore. 

CONSIGLI PER IOSCRITTORE

Concentrati sulle prime pagine. L’incipit è importantissimo e deve acchiappare il lettore da subito (ne parlo più approfonditamente qui). Perciò rendilo potente e accattivante. 

Correzione di bozze. Fai attenzione ai refusi, alla grammatica e rispetta le norme redazionali (virgolette giuste, attenzione agli spazi prima degli apostrofi ecc.). Un testo pieno di errori dà al lettore un immediato senso di amatoriale, e tu non vuoi che questo succeda. Vero?

Falla facile. Non proporre testi troppo complicati. Semplici, chiari, leggeri, meglio se ironici – l’ironia funziona sempre in questi concorsi – e non troppo lunghi. Sì, c’è un massimo di battute (800mila), ma non è il concorso adatto a presentare tomoni alla Infinite Jest

Occhio all’impaginazione. Segui fedelmente le norme grafiche del concorso. Sul sito è possibile scaricare un file di esempio che mostra come impaginare l’opera. Attieniti quanto più riesci a questo esempio.

Tieni presente che il testo sarà letto da persone che come te dovranno leggere e commentarne altri nove, persone che come te stanno partecipando a un concorso e non hanno nessun vantaggio a farti emergere. Anzi.
Come dici? Puoi fare la stessa cosa anche tu? Abbassare i voti degli altri per avere più possibilità di vincere?
Certo, potresti. Ma capiamoci: su cinquemila concorrenti ne vince uno, gli altri vincono solo la possibilità di avere dei giudizi sul proprio testo per poterlo migliorare. Non è il caso di essere onesti, leggere fino in fondo le opere altrui e valutarle con correttezza, rispetto e competenza?

Va detto che per invogliare a letture e giudizi più accurati GeMS assegnerà anche il premio Miglior lettore; i primi dieci classificati vinceranno un e-reader e un buono per l’acquisto di libri e il primo

Per concludere, ti consiglio questo post in cui l’autrice Samanta Sitta (confermata e premiata anche nel 2022 come migliore lettrice a Ioscrittore) racconta della sua prima esperienza con il concorso, nel 2019. Interessante e spassoso.

Spero di averti chiarito alcuni dubbi, ma se dovessi averne altri sai come contattarmi. Non mi resta che augurarti buona fortuna per la tua partecipazione al torneo!

21. Oltre l’ordinario – Qualche consiglio per un incipit originale

Hai mai pensato a quanto il nostro modo di vivere, le nostre necessità quotidiane influenzino il nostro linguaggio? A partire dalla famosa (e più o meno smentita) moltitudine di parole eschimesi per dire “neve”, fino ad arrivare a parole di uso quotidiano che descrivono aspetti unici della vita di chi parla quella lingua specifica, o almeno la lingua che si è presa la briga di descrivere con un sostantivo un determinato fenomeno. 

Per esempio, hai mai sentito la parola “Tsundoku? No, vero? Eppure chi di noi non ha una pila di libri comprati e non ancora letti ammassati ai piedi al letto. Tsudnoku è la parola giapponese che definisce quella perifrasi: libro comprato e non ancora letto. E il groviglio di cavi avvoltolati insieme dietro la scrivania? “Kabelsalat“, per un tedesco (Ella Frances Sanders, Lost in translation). 

O ancora ­– e ci stiamo avvicinando al succo della questione – come chiameresti la luce del sole che filtra attraverso le foglie degli alberi? Ancora una volta ci viene in soccorso il Giappone, che la sfanga con un termine bello comodo: “Komorebi“.

Ora, perché in Italia ancora nessuno ha pensato a un unico lemma per indicare la luce che filtra dalle persiane all’alba?
Se esistesse, se qualcuno si fosse dato pena di inventarselo e, per usarlo, chi scrive dovesse pagargli un tributo, be’, sarebbe uno degli uomini più ricchi del mondo. 
Chi lo userebbe, ti chiedi? Semplice: la maggior parte degli autori in erba, negli incipit dei romanzi che mandano alle case editrici. 

Io ci lavoro con le case editrici. 
Due testi su tre di quelli che arrivano in redazione iniziano con il protagonista che si sveglia, la mattina. O è la sveglia, a svegliarlo, oppure è la luce che filtra dalle persiane, tende, tapparelle; qualsiasi cosa che sia in grado di filtrare i raggi del sole.

Un consiglio. Se anche il tuo romanzo inizia così, il primo capitolo levalo. Via, sciò. Al lettore non interessa da che cosa filtri la luce che ogni mattina sveglia, accecandolo, il  protagonista. Chi vuole leggere di qualcuno che si lava i denti, si guarda allo specchio o fa colazione? È roba già sentita, non riuscirai mai così a catturare davvero l’attenzione. Il lettore vuole movimento, azione. Oltre l’ordinario, capisci?

Leggi anche: “08. Inizio al fulmicotone: l’incipit”.

Allora, come creare incipit coinvolgenti e originali? La chiave può essere iniziare dove la storia acquista interesse, o anche solo con un pensiero insolito e intrigante.
Spezza il cliché dell’incipit tradizionale. Piuttosto che cominciare con la solita solfa della routine mattutina, prendi il tuo lettore e gettalo in una situazione inaspettata, oppure piazzalo davanti a un pensiero fuori dagli schemi, una riflessione che ponga le basi per il tema principale della storia. Crea curiosità attraverso enigmi o situazioni stuzzicanti; i lettori vorranno sapere come continua la storia.

Rompi le convenzioni, sfrutta la diversità delle lingue e dei concetti e inizia la tua storia in modo unico. Solo così potrai garantire che il tuo lettore sia da subito enganchado
Visto? Un altro di quei bellissimi termini. 

Giovani lanzichenecchi senza nome: riflessioni sulla società contemporanea

Lanzichenecchi. Questo termine, usato in un articolo da Alain Elkann, ha sollevato un vespaio di critiche. Sui social lo accusano di classismo. Chi erano i lanzichenecchi e come mai sono stati chiamati in causa? E perché l’articolo ha suscitato tante accese reazioni?

I lanzichenecchi, chi erano?

I lanzichenecchi erano mercenari tedeschi che nel XVI secolo combatterono in numerose guerre europee. Erano noti per la loro brutalità in battaglia, il loro atteggiamento indisciplinato e il loro aspetto caratteristico, con abiti colorati e piume sui cappelli. Venivano spesso arruolati tra i figli cadetti dei contadini e dei piccoli proprietari terrieri, da qui il termine tedesco Landsknecht, che significa letteralmente “servi della terra”.

I giovani lanzichenecchi del Roma-Foggia sono caratterizzati invece da un abbigliamento alla moda, dall’uso eccessivo della tecnologia e dal linguaggio scurrile. Parlano di calcio e ragazze e non portano orologi. Questo ha suscitato tanto fastidio a Alain Elkann da indurlo a scriverci un articolo.

L’articolo di Alain Elkann su La Repubblica

Nel suo articolo, Alain Elkann descrive un incontro con un gruppo di giovani avvenuto durante un viaggio Roma-Foggia; treno Italo, prima classe. L’autore sottolinea le differenze evidenti tra il suo raffinato stile di vita e quello dei giovani lanzichenecchi. Lui  indossa un abito elegante, legge giornali d’economia in lingua straniera e scrive con una penna stilografica, mentre i ragazzi manipolano incessantemente scatolette futuribili chiamate iPhone, parlano ad alta voce e usano un linguaggio volgare.

Le critiche all’articolo di Alain Elkann

L’articolo di Alain Elkann è stato oggetto di numerose critiche sui social media. In molti lo hanno definito classista e l’utilizzo del termine “lanzichenecchi” come nomignolo dispregiativo attribuito ai giovani compagni di viaggio è stato visto come un modo denigratorio per etichettare, generalizzando, una intera generazione. Dopo le polemiche, il comitato di redazione di Repubblica si è dissociato dall’articolo, sottolineando che rappresenta solo il punto di vista dell’autore e non riflette l’opinione del giornale. 

La rilevanza dei giovani lanzichenecchi nella società contemporanea

Più che sul classismo o meno dell’autore, l’articolo, a mio avviso, solleva interessanti questioni sulla società contemporanea. I ragazzi – visti da un’altra generazione – sono concentrati sull’apparenza, la moda, l’utilizzo sfrenato della tecnologia e su un linguaggio che, pur sboccato, li unisce sotto un unico gonfalone. Sembrano altresì trascurare l’importanza dell’istruzione, della cultura e del rispetto. 
Questo può dipendere da vari fattori, tra cui l’influenza dei media e delle celebrità, il libero accesso alla tecnologia e la mancanza di modelli positivi; i giovani possono sentirsi attratti da una cultura pop superficiale, che enfatizza l’apparenza e la gratificazione effimera, sempre in cerca di un’identità di appartenenza.

La diversità come valore. Sempre. 

La diversità dovrebbe essere vista come valore, non come svantaggio. Sempre e comunque. Facile criticare comportamenti – soprattutto se da una posizione estremamente privilegiata, come quella di Elkann – senza andare a fondo della questione, senza fare il minimo sforzo per comprenderne le cause. 
Da che mondo è mondo ai miei tempi si stava sempre meglio, quando è ormai chiaro che il dialogo tra diverse entità è il modo migliore per raggiungere tra le parti comprensione e tolleranza reciproche. 
Del resto, Fitzgerald diceva: “I ricchi sono diversi da noi” e Hemingway confermava: “È vero, hanno molti più soldi”.

Dalton Trumbo e il suo manifesto pacifista: “E Johnny prese il fucile”

Qualche giorno fa, la Casa Bianca ha dato il via libera alla fornitura all’Ucraina di bombe a grappolo, armi disumane a tal punto da essere bandite da più di cento Paesi nel mondo. Bombe che rilasciano a loro volta centinaia di submunizioni, che spesso rimangono inesplose e mettono a repentaglio la vita dei civili, anche per decenni dopo il conflitto. Al telegiornale, lindi nei loro completi di sartoria, ricchi gestori di morte scendevano da auto corazzate per incontrarsi e discutere della vita di migliaia di persone.

Non sono poi cambiate di molto le cose rispetto a un secolo fa, quando Joe Bonham ha combattuto la prima guerra mondiale. Perdendo ogni cosa.

Johnny get your gun, era l’invito del manifesto che tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo invitava i giovani americani ad arruolarsi: “Johnny, prendi il fucile”. 

E Johnny prese il fucile.

Dalton Trumbo, convinto antimilitarista, dà vita a un libro (da cui poi l’omonimo film diretto dallo stesso Trumbo) che colpisce devastante. 

Prima guerra mondiale, soldati americani di stanza a Parigi. Per l’esplosione di una bomba, l’ultimo giorno del conflitto, Joe Bonham perde le gambe, le braccia, la mascella, la vista, l’udito, l’olfatto. Rimane un tronco, con un cervello ancora funzionante. E, con quel cervello, vola. 

Tutta la sua vita era così simile al sonno che non aveva alcuna possibilità di segnare la differenza. Per forza di logica doveva essere sveglio gran parte del tempo. Ma l’unico momento in cui poteva con certezza dire di essere sveglio era quando sentiva le mani dell’infermiera.

Il romanzo è uno stream of consciousness, tra pensieri, ricordi e riflessioni libere e urticanti. Prima, seconda, terza persona, forma diretta libera, indiretta. Non importa. Una prosa piana, vicinissima al parlato, e niente punteggiatura. Non ce n’è bisogno. Joe non pensa alle virgole, non si preoccupa che il suo modo di esporre appaia piacevole alla lettura. Joe odia com’è ridotto, odia chi l’ha costretto a combattere la guerra che l’ha ridotto così. Odia non poter comunicare, essere chiuso nel suo, e solo suo, mondo. Una frustrazione umana lacerante. Tante le domande. Soprattutto una: perché?
Per cosa, si domanda, ho combattuto?

Eccoti qui Joe Bonham steso come un quarto di manzo appena macellato per tutto il resto della tua vita e per cosa? Ti hanno battuto una mano sulla spalla e ti hanno detto su ragazzo vieni andiamo in guerra. E tu sei andato. Ma perché? In qualsiasi altro contratto quando compri una macchina o lavori sotto padrone hai il diritto di chiedere qual è il mio guadagno? Altrimenti compreresti macchine non buone a prezzi esorbitanti oppure sgobberesti per qualche fesso col rischio di morire di fame. Era una specie di dovere che uno aveva verso se stesso quando qualcuno gli veniva a dire figliolo fai questo o fai quello di alzarsi in piedi e rispondere mi scusi signore ma perché dovrei farlo e cosa ci guadagnerò io alla fine? Ma quando arriva un tizio e ti dice su vieni con me a rischiare la vita forse a morire o a restare mutilato be’ allora non hai il diritto di dire né sì né no o ci penso sopra.  Ci sono un sacco di leggi che proteggono il denaro di un uomo anche in tempo di guerra ma non c’è un libro che dica che la vita di un uomo gli appartiene.

Una domanda, quella sul perché delle guerre, che tormenta da sempre Dalton Trumbo, talentuoso e richiestissimo sceneggiatore di Hollywood. Autore dapprima incarcerato perché accusato di simpatie filo comuniste e cospirazione contro i valori democratici della nazione, e poi, finito nella lista nera degli autori stipulata dal governo, costretto a lavorare sotto pseudonimo per diversi anni, finché Kirk Douglas non lo convinse a usare il suo vero nome sulla sceneggiatura del colossal Spartacus, liberandolo di fatto dal giogo della censura maccartista.
Pubblicato nel 1939 e insignito del National Book Award, Johnny got his gun, aderiva alla linea del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, di cui Trumbo faceva parte, che voleva evitare l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Poi, nel 1941, quando Hitler invase l’Unione Sovietica, il partito cambiò idea e appoggiò l’intervento americano al fianco dell’Unione Sovietica e Trumbo si affrettò a ritirare il libro dal mercato fino alla fine della guerra.

Ora se muori per proteggere la tua vita non sei certo più vivo e allora che senso ha una cosa del genere?

Quando Joe vive i tocchi dell’infermiera sul proprio petto come un dono insperato di inestimabile valore. Quando ricorda il perché si è arruolato, non per liberare il suo Paese come da promesse governative ma per uscire di prigione. Quando, disperato, con scatti del collo e colpi della nuca sul cuscino, cerca di comunicare con l’alfabeto morse. Quando si sente tradito. Quando qualcuno lo premia con una medaglia, di cui sente sul petto il gelido tocco metallico. 

Gli avevano dato una medaglia. Tre o quattro pezzi grossi che avevano ancora gambe e braccia e che potevano vedere parlare e odorare e gustare erano venuti in camera sua e gli avevano puntato una medaglia sul petto. Se lo potevano permettere vero razza di bastardi che ve lo potete permettere? Non avevano tempo per fare altro che correre in giro a puntare medaglie e a sentirsi importanti e soddisfatti di sé. Quanti generali muoiono in guerra? 

Quando il calore mutevole della giornata è l’unico contatto con il tempo che passa e l’unico modo per calcolare il trascorrere dei giorni. 

Pensava se non avrò mai niente dalla vita avrò sempre l’alba e la luce del sole mattutino.

E johnny prese il fucile è un libro che va contestualizzato, agito, vissuto. In cui addentrarsi senza pretese di trame o colpi di scena. Joe ha solo il cervello. E pensa di continuo. È un manifesto di pacifismo integrale. Un ritratto della distruzione che la guerra rappresenta.
Di ideali, di valori. Di umanità. 

“La vita nascosta”: nei meandri della condizione umana | Recensione

Il romanzo La vita nascosta di Raffaele Donnarumma, edito da Il ramo e la foglia editore, parte dalla crisi affettiva e relazionale di R., professore universitario che, dopo aver rotto con il suo compagno S., ripensa alla sua vita sentimentale e sessuale, cercando di elaborare il fallimento della propria storia. Relazione che aveva da tempo dato avvisaglie del suo stato di logorio, piena di tradimenti non confessati e di incomprensioni. 
L’allontanamento del compagno crea un vuoto nella vita del protagonista, che si trova, con l’obiettivo di farvi ordine, a ripercorre il percorso di scoperta della propria omosessualità, segnato dal timore e dalla vergogna. 
Cerca allora di reagire nel modo più immediato e apparentemente vantaggioso, anche se in fondo non risolutivo, frequentando le chat in cerca di nuovi incontri. È qui che incontra L., giovane tenebroso e sfuggente del suo stesso ambito universitario (ha appena finito il dottorato) di cui si innamora e che, con silenzi e sparizioni, mette a dura prova la sua serenità.

Il flusso riflessivo del protagonista narratore, che si dipana lungo l’arco dell’intero libro, tocca diversi temi, soffermandosi sulle sfide e le complessità legate alla definizione della propria identità.

Avevo costruito una parte essenziale della mia identità intorno al mito dell’omosessualità come colpa, ne avevo fatto un oggetto di riflessione continua.

A bilanciare il peso di riflessioni ed eventi che tendono a trascinarlo verso scelte non sempre razionali, si pone il rapporto tra il protagonista e l’amica Anna, una sorta di confronto di collodiana memoria con la propria coscienza. E forse non è un caso che il nome di lei – uno dei pochi presenti nel libro riportato per esteso, gli altri sono sostituiti da iniziali – sia palindromo, e ricordi un gioco speculare di riflessi.

A me sembra che non andiate da nessuna parte, che tu non vai da nessuna parte. Forse questa storia ti serve a farti sentire più buono, visto che ti sacrifichi per lui. Ma è un legame – (mi ferì, perché non aveva detto ‘amore’) – che non produce nulla. E poi, non è solo che per lui non puoi fare niente: è che condanni te, è te che punisci e di cosa, io davvero non lo capisco. Non trovavo argomenti per darle torto.

In La vita nascosta la profondità dei contenuti introspettivi supera di gran lunga l’importanza di una trama, la levatura dell’analisi del protagonista, che si propone come specchio sineddotico della condizione umana in generale, rende l’assenza di una struttura narrativa tradizionale irrilevante ai fini del godimento del testo da parte del lettore. Donnarumma invita alla riflessione, e lo fa prendendo spunto dal fallimento della storia di R. Fallimento che si espande simbolicamente e si erige a figura incombente e invisibile nella vita di ogni individuo. Evitare di finirci contro dipenderà dalla sua abilità, da quanto la paura, l’ansia di scontrarvisi ostacolerà il suo passo impedendolo a suon di sgambetti e tranelli. 

Primo romanzo del saggista, storico e critico letterario Raffaele Donnarumma, La vita nascosta è un romanzo condotto con uno stile letterario fervido ed emozionale, fatto di contrasti e vivacizzato di tanto in tanto da sfumature ironiche, spesso fluido e accessibile, anche se a volte cambia decisamente registro rendendo pensieri semplici con evoluzioni pretestuose, che potrebbero lasciare spiazzato il lettore:

Nella specializzazione dei desideri, i gay sono molto più avanti degli etero sessuali: hanno elaborato una tassonomia che ha la flessibilità opportunistica di un reparto merceologico più che ricorre di un manuale di zoologia.

Un romanzo che non ha paura di calarsi nei meandri della condizione umana a indagare il tentativo dell’individuo di attraversare il mondo e superarlo indenne, tra le ansie e le paure che lo pedinano nel corso della vita. 

Ecco i cinque finalisti del Premio Strega; “Ferrovie del Messico” è fuori 

Al termine della serata presentata da Stefano Coletta, che ha dialogato con i dodici autori in gara, Mario Desiati, presidente di seggio e vincitore dell’anno scorso, ha annunciato i cinque libri che passano al turno successivo, ovvero in finale.

Hanno partecipato al voto, con voti singoli e collettivi, 596 persone su 660 (pari al 90,3% degli aventi diritto). Oltre ai 400 Amici della domenica, hanno espresso le loro preferenze 220 studiosi, traduttori e intellettuali italiani e stranieri selezionati da oltre 30 Istituti italiani di cultura all’estero, 20 lettori forti e 20 voti collettivi provenienti da scuole, università e gruppi di lettura.

Il totale dei voti espressi ha quindi determinato i seguenti finalisti alla LXXVII edizione del Premio Strega:

• Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli), con 217 voti
• Ada D’Adamo, Come d’aria (Elliot), con 199 voti
• Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata (Einaudi), con 183 voti
• Andrea Canobbio, La traversata notturna (La nave di Teseo), con 175 voti
• Romana Petri, Rubare la notte (Mondadori), con 167 voti

Questi i voti ottenuti dagli altri libri in gara: Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio (Bompiani), 158 voti; Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza), 145 voti; Andrea Tarabbia, Il continente bianco (Bollati Boringhieri) 136 voti; Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico (Laurana Editore), 135 voti; Maddalena Vaglio Tanet, Tornare dal bosco (Marsilio), 117 voti; Carmen Verde, Una minima infelicità (Neri Pozza), 89 voti; Vincenzo Latronico, Le perfezioni (Bompiani), 67 voti.

Il libro vincitore finale sarà eletto giovedì 6 luglio al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma e la cerimonia sarà trasmessa in diretta televisiva da Rai Tre, con la conduzione di Geppi Cucciari.

Sui canali social del Premio Strega un coro di dissenso si è levato per l’esclusione dalla cinquina di Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi, romanzo da molti ritenuto degno non solo di accedere alla finale, ma anche di aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento.

Viaggio terapeutico fra le insidie della mente umana: “L’amore attraverso il piacere”, di Greta Cerretti

Chiunque sia stato in psicanalisi sarà stato almeno una volta curioso di scoprire i segreti della propria terapia, di sbirciare dietro le quinte, di rivedersi attraverso gli occhi e le impressioni del terapeuta. Greta Cerretti, con una formazione e un passato di psicologa e psicoterapeuta, ce ne dà la possibilità.
Pubblicato nel dicembre del 2022 per Bré Edizioni, L’amore attraverso il piacere si addentra e ci accompagna (o, meglio, trascina) nei meandri della psicoterapia. Questo mondo nascosto e tanto affascinante ce lo mostra attraverso gli occhi della protagonista del romanzo Valeria, una giovane psicologa appena specializzata, alle prese con il suo primo cliente (o paziente, a seconda dell’orientamento del terapeuta). Una prima prova impegnativa, visto che l’uomo, Marcello, un trentenne che vive con i genitori e accudisce suo malgrado la madre malata, ha sviluppato una dipendenza dal sesso – a pagamento, l’unico che finora abbia sperimentato – e una grande difficoltà nel rispettare i limiti. 

Il mestiere le impone di schierarsi dalla parte di quest’uomo ambiguo, di credere in lui e supportarlo.

Anche se dentro di lei vorrebbe concludere il prima possibile la terapia ed evitare ogni coinvolgimento. Sarà complicato. 

Marcello è un individuo ancora alla ricerca di una propria identità, che fa esperimenti di vita, che studia e si ascolta e si consiglia, senza però riuscire a cambiare. Riesce a mettersi in gioco a tal punto da aprirsi a una terapia, con tutto quello che ne comporta (mettersi a nudo e svelare ogni più occultata pulsione), ma sempre sfidante, e con un labile concetto di “confini”, che molto spesso tenta di valicare. 

A sostenere Valeria ci sono due professori, due psicologi, con metodi diametralmente opposti sul come esercitare la loro professione, e due amici: Luisa e Salvo. Lei è molto disponibile ma non sempre così attenta come Valeria la vorrebbe e Salvo è un ragazzo inafferrabile, sempre alla ricerca dello scherno, della frecciatina, della scaramuccia. 
Dalla parte di Marcello, invece, il vuoto. 
I suoi genitori sono anaffettivi. La madre è malata, di continuo alla ricerca di accudimento, e il padre, sor Mario, avulso dalla realtà quotidiana, è pressoché assente nella vita di Marcello, sia come modello maschile sia come aiuto con la madre – che Marcello, appunto, deve accudire da solo, senza alcun tipo di supporto. È solo, pericolosamente solo, in un cono d’ombra scavato negli anfratti della sua esistenza, fatta di menzogne, paure e repentini scatti di umore. Solo, con le sue prostitute.

La trama del libro si rivela intrigante sin dalle prime pagine, intrecciando abilmente elementi che attivano e mantengono sveglia l’attenzione del lettore. 
Attraverso un solido modello di struttura narrativa quinaria di shakespeariana memoria, Cerretti crea una sequenza di eventi ricca di cambi inaspettati ben collocati, sorretti da una tensione narrativa ben strumentata e che non ha momenti di distensione eccessiva. 
La scrittura è scorrevole e, quando deve, incisiva. Guida il lettore lungo la narrazione variando spesso il ritmo, che si fa incalzante, a volte, persino soffocante, mitigato da frequenti e ben riusciti inserti dialogici. Il dialogo ha grande importanza nella complessità di questo libro, proprio per la sua funzione tipica di mostrare i personaggi agire e di velocizzare la prosa, al fine di facilitare l’immersione del lettore nel mondo creato dall’autrice.

Grazie alla sua competenza professionale nel campo della psicologia, Greta Cerretti ci offre personaggi ben caratterizzati e una prospettiva autentica e ricca di dettagli sulla terapia e sui pensieri segreti (per il paziente) che possono agitarsi nella mente di una terapeuta.
Ci mostra ogni seduta come un incontro in cui c’è in palio qualcosa. Una volta vediamo Valeria entrare nella stanza spedita, e ci immaginiamo le porte dell’arena che si spalancano davanti a lei; fuori un minaccioso gladiatore l’aspetta in un corruscare di acciaio e di lame. A volte invece è più di un braccio di ferro, che si tratta, di una partita a scacchi tra Valeria e Marcello, una partita di tennis che inizia su un campo e, colpo su colpo, passo dopo passo, sconfina oltre la stanza, oltre all’edificio. Senza confini. Senza esclusione di colpi.

L’accusa è esplosa nella stanza, ma questa volta c’è ancora tempo di controbattere e superare la prova, l’unico modo per non soccombere sul ring è picchiare con altrettanta forza.

Una trama avvincente, personaggi complessi e ben costruiti, colpi di scena ben orchestrati e una tensione narrativa costante, abbinati a una scrittura scorrevole e una ritmica incisività. Sono questi, in sintesi, gli elementi che contribuiscono a rendere L’amore attraverso il piacere una lettura coinvolgente, immersiva, che invoglia a completarla senza interruzioni. Un’opera che cattura sin dalle prime pagine e mantiene le sue promesse fino all’ultima parola.

“Le persiane verdi”, di Georges Simenon | recensione

Adelphi riporta in libreria Georges Simenon in questa nuova edizione di Le persiane verdi, per la traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. 
Émile Maugin è un attore cinquantanovenne che ha raggiunto il successo solo in età avanzata. Fino ai quaranta “ha fatto la fame” e, adesso, nonostante il grandissimo successo, il senso di incompiutezza non lo abbandona. Quando il medico gli rivela che, con il cuore così malmesso, se non modifica il suo stile di vita gli rimarrà ancora poco da vivere, Maugin è costretto a fare un bilancio della propria vita. A tirare le somme. E si accorge di aver paura della morte, perché ancora, nonostante le sue ricchezze e la sua fama, non ha ottenuto la cosa più importante: la casa con “le persiane verdi”, ovvero la sua pace terrena.

L’inconsistenza, di fronte alla possibilità del tutto.
Dissolutezza, la chiamano. È uno stadio a cui molte star adattano il proprio modo di vivere. Un modo per cercare di dare un senso a quel paradossale straniamento che il potere di avere tutto comporta. Quando hai tutto ciò che vuoi, quando la vita è ormai un desiderio perenne, l’esistenza si riduce alla ricerca continua di qualcosa, sempre di qualcosa, che non arriverà mai perché l’obiettivo, l’oggetto agognato, cambierà con il suo raggiungimento. Allora questa vita deve darti di più, sempre di più. Ma una vita senza confini sfocia per definizione nell’eccesso, quello che porta Maugin a lavorare senza sosta – anche con un’età e un prestigio sociale che gli consentirebbero di prendersi pause senza timori –, ad abusare di alcolici, a molestare la (più o meno consenziente) servitù di casa, a trattare il prossimo come un suddito, un peso, un ostacolo.

È in tutto questo marasma, questa dissolutezza, questi eccessi, queste possibilità pressoché sconfinate, che emerge dal cuore di Maugin un senso di alienazione, spaesamento, solitudine, nonostante sia attorniato da uno stuolo di lacchè e sostenuto da una giovane moglie innamorata e devota. Forse è soltanto la paura dell’ignoto che l’apprestarsi della morte come immagine sempre più imminente porta con sé. L’antico dilemma. Chi sopporterebbe grugnendo e sudando il peso della vita se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte ci spaventa e ci impedisce di ucciderci? Qui, a differenza dell’Amleto, non si parla di suicidio, ma la paura atavica di qualcosa da cui non c’è ritorno torna incombente anche in queste pagine, tinte di scuro, di solitudine, di amarezza.

Scritto nel gennaio del 1950 in una decina di giorni abbondanti, Le persiane verdi è un romanzo che appartiene ai romans durs, la categoria che Georges Simenon ha coniato per distinguere i suoi romanzi più popolari, i cosiddetti romans de gare, la saga poliziesca di Maigret, per intenderci, da quelli, come il presente, più psicologici, cupi e complessi.

La scrittura è sempre pulita, asciutta, priva di fronzoli o distrazioni, rigorosamente al servizio della prosa, elaborata per sottrazione. Ma rispetto ai Maigret, da questi romanzi emerge un autore più attento ai contrasti, alle sfumature psicologiche dei personaggi e alle loro dinamiche interiori. Come avviene per Maugin, un uomo che si compiace del suo apparire burbero, severo, arcigno e piuttosto scostante, ma il cui vero sogno è una casa con le persiane verdi, simbolo di una vita semplice e tranquilla, lontana dal clamore del successo e dalle angosce dell’esistenza. Un’esistenza che sembra offrirgli tutto, tranne la felicità.

“La vita di chi resta”, di Matteo B. Bianchi | Mini recensione

Dopo oltre vent’anni dall’accaduto, Matteo B. Bianchi trova con La vita di chi resta la forza di raccontare attraverso la forma scritta il più grande dolore della sua vita, dal momento in cui, dopo la telefonata conclusasi con “quando torni io non ci sarò già più”, trova in casa il cadavere del suo compagno impiccato. Raggiunta a suo dire una sufficiente distanza dal fatto, l’autore tenta l’ardua impresa di scriverne.

La vita di chi resta è un memoir, una raccolta di pensieri riordinati in anni di sofferenza, trambusto ed elaborazione. È scritto bene e ben strumentato, ma parlare di aspetti tecnici e narrativi in un libro di questo tipo non è appropriato. Di fronte a un’analisi che sembra sincera e rappresenta una caduta negli inferi del lutto, nei sensi di colpa che si rinnovano in una instabilità emotiva che si innesta come stato di partenza per tutto il resto, di fronte a tutto questo dolore è difficile parlare d’altro. Difficile e inutile.

Ho apprezzato la sincerità e il coraggio, più di tutto il resto, anche se personalmente non sono del tutto convinto che Matteo B. Bianchi abbia davvero raggiunto quella distanza, la distanza sufficiente a raccontare questo dolore. Il coinvolgimento c’è ancora, impossibile sbiadirlo, ridurlo. Nonostante questo però il testo è pressoché scevro da enfatizzazioni melodrammatiche e concetti cliché, ed è qui che risiede la sincerità che ho apprezzato. Un libro che credo abbia aiutato l’autore e che, nell’anonimato del dolore da lui stesso evocato, possa essere di conforto a chi ha subito un lutto del genere. 
Una speranza di ritrovare una luce, un senso alle cose e alla propria esistenza.