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Esce oggi la nuova rivista letteraria ProelioLab!

Una bella notizia.
Che vi comunico con grande soddisfazione. Esce oggi, 1 aprile 2024, la nuova rivista letteraria ProelioLab. Sarà trimestrale e conterrà tre racconti, più approfondimenti vari sul mondo dell’editoria.

Perché una nuova rivista?
Per lavoro ho a che fare quotidianamente con testi, manoscritti, parole – da valutare, sistemare, revisionare, correggere, trattare. E con autori e autrici. Ogni volta tra editor e autorə si instaura una dinamica particolare. Diventi una sorta di confidente, devi armonizzarti, entrare nella sua lunghezza d’onda, nel suo modo di ragionare, guardare il mondo dalla sua prospettiva e dai suoi occhi per capire come lo percepisce e come lo vuole raccontare.
Capita di entrare in un contatto fatto di suggestioni, un campo di energie volatili, non le puoi toccare ma le senti scorrere con tumultuosa urgenza.

A volte, lo stesso tipo di trasmissione cosmica la ottengo semplicemente leggendo un testo. E a volte, quel testo fa paura. Fa paura alle case editrici, che spesso non se la sentono di pubblicarlo.
Perché? Manca la qualità? No. Manca il contenuto? Nient’affatto. Nulla di tutto questo. È solo che non va bene. Non rientra nelle linee editoriali della casa editrice. Non è quello che cercano.
Perché? Che cosa cercano?
Ognuna qualcosa di diverso (almeno in teoria), ma molte, moltissime, la maggioranza assoluta, cercano la chiarezza, la fruibilità. La lettura easy. È un male? Non necessariamente. Però è una condizione diffusa.

L’obiettivo di ProelioLab è trovare racconti sfidanti, sbalorditivi, accecanti e vivi come guizzi argentati. Per scoprire nuove voci. Nuovi luoghi, persone, fatti, e modi di raccontarli.
Saranno poi presenti approfondimenti tematici. Per scavare un foro nella scorza inaccessibile da cui è protetto il mondo editoriale e portarvi con noi, incauti esploratori, nelle sue profondità. Per aiutarvi a conoscere cosa si nasconde dietro quell’oggetto magico e misterioso che tenete sul comodino.

Potete scaricare gratuitamente la rivista qui.

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Ioscrittore 2025, come funziona quest’anno (e qualche consiglio)

Al via la nuova edizione 2025, c’è tempo fino al 10 aprile 2025 per inviare il proprio incipit e partecipare al concorso Ioscrittore per aspiranti autori. Ma cos’è, come funziona, quali tattiche adottare? Io ho partecipato due volte, entrambe le volte arrivando in finale. Ecco i miei consigli.

Cos’è Ioscrittore?
Ioscrittore è il concorso per aspiranti scrittori promosso dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Con 54.529 partecipanti nelle edizioni passate, è uno dei più seguiti in Italia e mette in palio la pubblicazione presso una delle case editrici del Gruppo. In realtà, sottolineano gli organizzatori, non è solo un concorso, ma una vera e propria operazione di scouting, costantemente monitorata dagli editor di GeMS.

Come funziona Ioscrittore?
Fino al 10 aprile 2025 puoi caricare il tuo incipit sulla piattaforma. Il file, che deve seguire alcune norme grafiche descritte sul regolamento, dovrà contenere le prime pagine del tuo romanzo (tra le 30.000 e le 60.000 battute).  Ricorda che il testo dev’essere in Times New Roman, corpo 12 pt, e il file in RTF (Rich Text Format), uno dei formati tra cui puoi scegliere quando salvi da Microsoft Word o Open Office.
Inviato l’incipit alla redazione di Ioscrittore, ad aprile inizierà il lavoro. 

I migliori concorsi letterari italiani per scrittori emergenti, la lista

Sul tuo account personale della piattaforma Ioscrittore saranno caricati una decina di incipit (potrebbero essere anche meno) di altri partecipanti. Avrai tempo fino al 5 giugno 2025 per leggerli tutti, commentarli, e dare un voto secondo alcuni parametri che ti saranno forniti. Il tuo incipit sarà a sua volta letto da una decina di partecipanti (anche qui il numero può variare leggermente) e commentato. 
Consegnati i tuoi – e solo in questo caso – al termine della prima fase riceverai i commenti sul tuo incipit. In base ai giudizi sarà stilata una classifica (invisibile ai concorrenti) e i primi quattrocento (l’ultima edizione erano solo trecento) incipit classificati passeranno alla fase finale. 
E qui inizia il bello. 

Le possibilità a questo punto sono tre. 
La prima
: non sei passato, fattene una ragione, leggi i commenti e cerca di migliorare per l’anno prossimo. 
La seconda: non sei passato, ma se vuoi puoi continuare come lettore (potrai ancora giudicare, ma sarai fuori gara). 
La terza: evviva, sei passato! Festeggia con gli amici e rimettiti all’opera! La fase più faticosa comincia adesso. 

È il momento di consegnare il plico. Carichi sulla piattaforma la tua opera completa (hai tempo fino al 15 luglio 2025) e qualche giorno dopo ricevi fino a quindici romanzi altrui, che dovrai leggere e commentare, come hai fatto con gli amici dell’incipit, entro il 23 ottobre 2025.
A questo punto intervengono gli editor delle famose case editrici e stilano un elenco di dieci finalisti (di questi, tutti vedranno il proprio manoscritto pubblicato in versione digitale) che durante un evento presso BookCity Milano 2025 saranno resi noti.
Il vincitore definitivo, quello a cui sarà pubblicato il romanzo in forma cartacea sarà proclamato entro il 17 dicembre 2025.

I pro e i contro del concorso Ioscrittore. 

Pro
Ioscrittore è gratuito, è seguito da editor di grandi case editrici, alcuni partecipanti delle edizioni passate sono diventati poi autori di successo (Silvia Celani e Ilaria Tuti, per esempio), e puoi ottenere svariati pareri sul tuo romanzo.

Contro
Avrai da leggere e commentare 10 incipit e, se passi in finale, 10 romanzi interi. Nelle intenzioni degli organizzatori i voti dovrebbero essere dati con criterio, competenza e onestà, ma non sempre accade. Spesso i commenti non sono leali e, spiace dirlo, nemmeno competenti. 

E ora alcuni consigli per avere qualche probabilità in più nel concorso Ioscrittore. 

CONSIGLI PER IOSCRITTORE

Concentrati sulle prime pagine. L’incipit è importantissimo e deve acchiappare il lettore da subito (ne parlo più approfonditamente qui). Perciò rendilo potente e accattivante. 

Correzione di bozze. Fai attenzione ai refusi, alla grammatica e rispetta le norme redazionali (virgolette giuste, attenzione agli spazi prima degli apostrofi ecc.). Un testo pieno di errori dà al lettore un immediato senso di amatoriale, e tu non vuoi che questo succeda. Vero?

Falla facile. Non proporre testi troppo complicati. Semplici, chiari, leggeri, meglio se ironici – l’ironia funziona sempre in questi concorsi – e non troppo lunghi. Sì, c’è un massimo di battute (800mila), ma non è il concorso adatto a presentare tomoni alla Infinite Jest

Occhio all’impaginazione. Segui fedelmente le norme grafiche del concorso. Sul sito è possibile scaricare un file di esempio che mostra come impaginare l’opera. Attieniti quanto più riesci a questo esempio.

Tieni presente che il testo sarà letto da persone che come te dovranno leggere e commentarne altri nove, persone che come te stanno partecipando a un concorso e non hanno nessun vantaggio a farti emergere. Anzi.
Come dici? Puoi fare la stessa cosa anche tu? Abbassare i voti degli altri per avere più possibilità di vincere?
Certo, potresti. Ma capiamoci: su cinquemila concorrenti ne vince uno, gli altri vincono solo la possibilità di avere dei giudizi sul proprio testo per poterlo migliorare. Non è il caso di essere onesti, leggere fino in fondo le opere altrui e valutarle con correttezza, rispetto e competenza?

Va detto che per invogliare a letture e giudizi più accurati GeMS assegnerà anche il premio Miglior lettore; i primi dieci classificati vinceranno un e-reader e un buono per l’acquisto di libri e il primo

Per concludere, ti consiglio questo post in cui l’autrice Samanta Sitta (confermata e premiata anche nel 2022 come migliore lettrice a Ioscrittore) racconta della sua prima esperienza con il concorso, nel 2019. Interessante e spassoso.

Spero di averti chiarito alcuni dubbi, ma se dovessi averne altri sai come contattarmi. Non mi resta che augurarti buona fortuna per la tua partecipazione al torneo!

Dieci anni dal Bataclan. Un mio racconto

Per ricordare e onorare la memoria delle vittime, oggi, a dieci anni dal Bataclan, condivido un mio racconto ispirato a quei fatti. Si chiama La luna e il vino.

La luna e il vino

Fosse successo a te avresti arricciato le labbra e detto il bicchiere pazienza ne ho altri cinque ma per il vino è un peccato, e io ti avrei dato una mano a raccogliere i cocci e insieme avremmo riso. Invece adesso sono solo, su una poltrona, con un pezzo di bicchiere in mano e non so da che parte cominciare a raccogliere i cocci, ed essere soli in una sera così, con la luna che se ne sta posata sui tetti di Parigi, così. Che luna, dio mio, una luna così, da soli.

Mi ricordo il mare, piccoli bagliori diffusi, te che facevi il bagno nuda, che alzavi la testa dall’acqua per capire se da fuori ti si vedeva. È notte, ti dicevo, non si vede niente. E allora perché non vieni anche tu, mi chiedevi, ma eri lontana. Ti guardavo dalla finestra in cucina, scaldavo il caffè in quel briki di rame che ti faceva ribrezzo toccarlo, mezzo arrugginito, non ci bevo neanche morta, dicevi, da questo schifo.

Sento le labbra che vorrebbero avvitarsi attorno a uno di quei sorrisi pieni di amarezza ma non ce la fanno. Non sorridono più.

La luna. La tua pelle bianca e incantata si intravedeva attraverso il velo trasparente dell’acqua luminosa di latte e plancton. Il disco della luna l’ho cercato persino sulle canne dei loro fucili, quella sera di novembre.

Avevo ancora la freschezza verde della menta ghiacciata in bocca, quando la musica si è interrotta di colpo. Tutti ammassati, sudati, felici, e il calore dei corpi intorno a noi ci avvolgeva in un abbraccio che sapeva di birra e sudore, l’energia della folla palpitava al ritmo della musica sul palco. Sembravano petardi all’inizio, come quelli scoppiati in strada a capodanno, ma questi erano colpi secchi, rabbiosi, che facevano sussultare, che arpionavano lo stomaco, e non c’era nessuno che rideva. Hanno iniziato a sparare che l’eco delle chitarre non si era ancora sopito, colpivano a caso, puntando le teste in mezzo alla folla.

Butto a terra il mojto. Corrono tutti in cerca di una via di fuga, alcuni cadono come stracci, i vestiti fradici appiccicati addosso, spinte, dammi la mano, e tu che la agiti altrove. A me, dico, tieniti a me cazzo, altri spari, i riflettori illuminano punti a caso della sala, ti prendo per il cappuccio ed è bagnato, si suda a fiotti qui dentro. Ti tiro con me e corriamo insieme, strillano tutti e ancora spari, strappi luminosi qui e là da ogni parte. Il tizio alza dal pavimento una ragazza per i capelli e le spara a bruciapelo, dio mio. Corro. Corriamo tutti. Cado a terra. E tu dove sei? Dove sei? Dove sei?

Eri sdraiata sulla sabbia. Vieni a farti un bagno?

Sei sdraiata a terra, immobile. Fatemi passare!

Verso un po’ di vino in un bicchiere nuovo e faccio un sorso, ed è buono, questo Borgogna, è proprio buono, cazzo, proprio buono. Il profumo mi ricorda l’odore verde scuro della vegetazione che quando passeggiavamo insieme pizzicava le narici.

Narici piene di sangue. Non ti trovo, loro che sparano ancora.

Una volta il cielo era stellato, ti ricordi? Seguivamo col dito le costellazioni. Quella è Orione, scemo, mi correggevi, non ne imbroccavo mai una. Allora chiudevo gli occhi, appoggiavo la testa, tu mi abbracciavi e io respiravo il profumo del mare sulle onde dei tuoi capelli.

Ma qui la gente è impazzita e tu sei per terra con il sangue che ti cola dal naso e dal mento e io corro perché voglio trovarti.

Il muro di casa si sta scrostando. Lo vedo con la coda dell’occhio, rischiarato dai raggi tenui, flebili, pallidi, lattei, stanchi e merdosi dellaluna che sta guardando i tetti di Parigi dell’undicesimo arrondissement. E li guardava anche quella sera, lo ricordo bene, quando non c’era sui fucili, perché la cercavo ma non c’era, perché era fuori tranquilla, lei, che guardava tranquilla, lei

e io che ti cerco e lei che mi guarda, ma come fa a vedermi se sono dentro, e tiro calci, spallate e pugni e mi spingono contro il muro e mi trascinano e non vedo più dove sei amore ma credo di averti lasciato per terra con il sangue che ti usciva dal naso e dal mento e si allargava sotto di te in una macchia di velluto caldo e non ti muovevi più. Oppure sei qui e stai correndo con me. Ma arrivano con i fucili e sventagliano una raffica da destra a sinistra, una raffica che non finisce più e mi toglie il fiato, e cadono tutti intorno, ma io sono in piedi e un dolore rosso eintriso e urlante mi morde la gamba

 è proprio buono questo vino, mi ricorda il profumo di quel rosmarino selvatico, che di sera, quando ti appoggiavo la testa sulla spalla e mi dicevi poteva andarmi peggio e io ti chiedevo come e tu mi dicevi con te e io ti chiedevo come e tu niente, e lei, la luna, sempre lassù a guardare, e io dovevo prenderlo come un complimento il tuo ma invece era una pugnalata nel petto

e un dolore sale dal polpaccio e mi sgretola fino alla schiena. È sangue quello che ho sulla mano, è il tuo sangue. E adesso ho caldo, brucio e non resisto perché ho il tuo sangue sulla mano ma tu non ci sei e io mi lascio cadere e rotolo e sbatto la spalla e mi si incendia il braccio e urlo e batto la testa, mi rialzo e barcollo

ti va di fare un bagno?

corro senza sapere dove, ma il piede mi fa male, il braccio mi fa male, mi va a fuoco la gamba

adesso non mi va

seguo gli altri e non so niente, so solo

non fare il cacasotto, un bagno io e te nudi

so solo schiene e spalle e teste

allora ti spogli sotto la luna e io ti guardo incazzato per la frase che hai detto, ma sei bella che risplendi e dico vado dentro a scaldarmi un caffè

ho il sapore ferrigno del sangue in bocca

rame arrugginito

tante teste intorno

quel briki greco

che si voltano

di rame

occhi sbarrati dal terrore a controllare che non ci stiano seguendo

vieni anche tu in acqua

e corro, con la vista offuscata e annerita mentre quello dice di fare piano ma tutti urlano e le grida mi artigliano la pancia, mi artigliano il petto, mi artigliano la gola e urlo anch’io e un’altra volta zitti!

spogliati e tuffati con me

e di colpo non urliamo più, non si urla più, si va piano per di là

(adesso sì)

per le scale

(adesso mi farei quel bagno con te)

su di là, dicono, con calma, su di là, gradini umidi, sempre su di là, viscidi, ancora su di là. Una stanza affollata. Finestre. Oltre il vetro, la luce della luna e della libertà. Lo rompono, e il vetro esplode in una nuvola di frammenti. E sono libero. Libero. Ma tu? Tu dove sei?

La luna vola soddisfatta. Chi illuminerà adesso che tu non ci sei più?

Mi riempie un silenzio improvviso, assoluto, di altri mondi. All’inizio è gelida la lama di vetro del bicchiere spaccato, un brivido tra le dita, la mano che trema ancora. Poi il calore si espande, denso e vischioso, dal polso al palmo, e liquido scivola sulla pelle in rivoli sottili. Lei è sempre lassù, luminosa e solitaria ad argentare gli abbaini e i tetti, a specchiarsi sulle vetrate della cattedrale, a navigare silenziosa fra i flutti pastosi della Senna. Ai miei piedi la macchia di velluto rosso si allarga e si insinua nelle fughe del pavimento, sulla superficie la luna si specchia perfetta, intatta. Mi ricorda te e sono felice. Ci rivedremo? Certo, alla prima baia ci tufferemo nell’acqua luminosa e nuoteremo al largo cercando un luogo che appartenga soltanto a noi e la corrente ci accompagnerà silenziosa e il mondo ci svanirà addosso, fino alla fine, insieme.

Francesco Montonati

Dalla memoria alla pagina: come scrivere la tua storia senza perderti

Ci sono esperienze che si scrivono da sole dentro di noi.
Accadono, ci travolgono, ci lasciano addosso un segno che non si può cancellare. E, a distanza di tempo, ci ritroviamo con la sensazione che quelle esperienze non appartengano più solo a noi, quasi ci chiedessero di essere raccontate, di trovare forma sulla pagina. È un’urgenza, a volte un obbligo morale. Bisogna farlo.

Ma è così semplice trasformare la propria esperienza in letteratura? Chi ci ha provato risponde con fermezza di no.

Per molto tempo, a chi pensava di scrivere la propria storia veniva ripetuto: “A chi vuoi che interessi? Della tua vita non frega niente a nessuno”. Eppure, negli ultimi anni, la tendenza ha invertito la rotta: il memoir, l’autofiction e l’autobiografia hanno conquistato sempre più spazio, lettori e riconoscimenti.

Diversi autori contemporanei hanno saputo trasformare le proprie esperienze personali in racconti universali, dimostrando che quando la memoria trova la forma giusta, può diventare letteratura che parla a tutti. Da Jonathan Bazzi a Paolo Cognetti, da Emanuele Trevi a Oriana Fallaci, al più recente Andrea Bajani, vincitore del Premio Strega con il suo “L’anniversario”, i successi non mancano.

Eppure scrivere di sé nasconde insidie che altri generi letterari non conoscono. Il coinvolgimento emotivo può diventare un ostacolo, la tentazione della cronaca può soffocare la narrazione, il peso del vissuto può impedire la necessaria distanza artistica.

Di seguito esploreremo le strategie che permettono di superare questi ostacoli, analizzando esempi di successo e fornendo consigli pratici per intraprendere questo viaggio complesso ma straordinariamente gratificante: quello di trasformare la propria memoria in letteratura.

Alcuni esempi concreti e contemporanei

Jonathan Bazzi con Febbre ha saputo trasformare un’esperienza di fragilità e marginalità in un romanzo potente e universale; Paolo Cognetti, partendo dalla propria esperienza autobiografica nel romanzo Le otto montagne ha creato una storia di amicizia e montagna che ha toccato migliaia di lettori; Matteo B. Bianchi con La vita di chi resta ha saputo intrecciare l’esperienza personale (il dolore per la perdita del compagno) con una riflessione culturale; Emanuele Trevi ha raccontato in Due vite la memoria degli amici scomparsi, trovando una forma limpida, commossa ma non retorica. Non sono che pochi di moltissimi esempi, ma bastano a dimostrare che la letteratura del sé non è più un esercizio privato, ma è diventata un genere centrale, amato e rispettato. Ecco alcuni dei miei consigli.

Alcuni consigli pratici – che uso tutti i giorni con i miei autori

La domanda è ancora sospesa: Come raccontare la propria memoria senza incorrere nei tranelli che il genere porta con sé?

Perché di rischi ce ne sono. Quando scriviamo di noi, il coinvolgimento emotivo è fortissimo, la tentazione di riversare tutto sulla pagina, come in un diario o in una confessione, è un impulso non facile da contenere. Ma la scrittura letteraria chiede altro: distanza, misura, capacità di trasformare un’esperienza intima in un racconto che possa parlare anche agli altri, senza gravare su di loro del proprio – personalissimo – carico emotivo. Come fare? Per prima cosa occorre trovare la giusta distanza.

La giusta distanza

Ci permette di assumere un punto di vista che consenta di vedere la propria storia come materia letteraria, e non solo come materia personale. È lo spazio di elaborazione che permette alla memoria, ai ricordi e alle emozioni ad essi associati di trasformarsi in linguaggio letterario.  

Per meglio comprendere quanto affermato vediamo alcuni esempi, attingendo direttamente dalla letteratura. Uno dei principali autori della memoria letteraria è il monumentale Marcel Proust.

La chiamava “memoria involontaria”: non il ricordo ricostruito, ma quello che riaffiora attraverso immagini, sensazioni, sapori, suoni. È un modo di scrivere che non (sempre) racconta ciò che è successo in modo lineare, ma evoca, lascia che i dettagli parlino, fa emergere la vita senza spiegarla in maniera eccessiva.

Attingendo dalla letteratura contemporanea italiana, possiamo ricordare Emanuele Trevi. Nel suo Due vite, vincitore del Premio Strega 2021, non stila un necrologio degli amici scomparsi, ma sceglie momenti, frammenti, dettagli che restituiscono la loro presenza più di qualsiasi elenco di fatti; il risultato è un racconto autentico, perfettamente fruibile.

Oriana Fallaci nel suo romanzo Un uomo ha saputo trasformare la propria storia d’amore con il politico greco Alekos Panagulis in un racconto che trascende il memoir personale ed evita la mera cronaca sentimentale per farsi ritratto universale della lotta contro l’oppressione, dell’amore che diventa resistenza. La chiave che l’autrice ha trovato è stata ripercorrere quella storia senza romanticismi o indulgenze, trasformando l’esperienza personale in un documento che parla a tutti di coraggio, libertà e amore totale. In una parola, ha trovato la giusta distanza.

La giusta distanza è proprio questo: la posizione ideale dalla quale selezionare, evocare, trovare il tono giusto e una chiave narrativa universale. Allontanare da sé il peso emotivo dell’evento per raccontarlo nel migliore dei modi, come un’opera letteraria e non come in una seduta psicanalitica.

Connotare, non denotare

Chi si accosta al memoir spesso pensa di dover raccontare “la verità dei fatti”, ma la forza e l’efficacia della scrittura non sta nella cronaca, ma nella capacità di evocare.

Cosa vuol dire?

Non serve sempre nominare direttamente un dolore, un trauma, una perdita. A volte è molto più potente farlo emergere attraverso un simbolo, un gesto, un dettaglio sensoriale. Il lettore ha bisogno di sentire. Anche se scriviamo “ho perso mio fratello in un incidente” il lettore capisce, certo. Ma se evochiamo il silenzio della sua stanza rimasta intatta e la luce della sua abat-jour che cade su un letto adesso vuoto, quel dolore diventa esperienza condivisa.

Preferire, in sintesi, un linguaggio che non si limiti a raccontare i fatti, ma che evochi, suggerisca, lasci spazio all’immaginazione del lettore. È quello che Roland Barthes, nel suo celebre saggio S/Z del 1970, chiamava “codice simbolico”.

Il potere dei simboli nella scrittura

Barthes aveva intuito che i testi più potenti sono quelli che creano risonanze nel lettore, e il codice simbolico funziona proprio così: invece di seguire la logica lineare diacronica e denotativa dei fatti narrati, apre il testo a significati più profondi, spesso inconsci.

Funziona per associazioni libere, come i sogni. Una porta che si chiude può evocare una separazione, un tramonto la fine di un’epoca, il silenzio di una stanza il vuoto lasciato da chi non c’è più. Il lettore non riceve passivamente l’informazione: partecipa, riempie gli spazi, riconosce nelle immagini le sue esperienze.

Questo fa esplodere un testo di memoir, oltre la semplice cronaca personale. Quando riesci a trasformare la tua esperienza in simboli universali, la tua storia diventa anche quella di chi legge. La scrittura autobiografica vive di questa sottigliezza: dire senza dire, evocare più che spiegare.

Scrivi senza censura, poi lavora per sottrazione.

All’inizio lascia che tutto venga fuori. Ma poi chiediti: cosa serve davvero al lettore? Cosa invece è solo mio sfogo personale?

Stephen King dice “scrivi la prima bozza con la porta chiusa e la seconda con la porta aperta”. Con questa metafora intende che nella prima stesura ci siete tu e il tuo testo, nessuno altro è ammesso. Questo ti consentirà di scrivere liberamente e liberare davvero tutto il carico che conservi, senza paura di giudizi o reazioni altrui. Lascialo poi sedimentare il giusto (anche dei mesi, perché no?), rileggilo armato di pazienza e… di ascia affilata!

Cerca il dettaglio evocativo

Una scena, un odore, un dialogo spezzato, un sottotesto spesso dicono più di mille spiegazioni. Cerca di tradurre le istanze più dolorose in oggetti simbolici, in metafore e trasferirle sul tuo testo. Se ci riuscirai, sentirai affiorare qualcosa di simile a una magia: il peso si trasferisce fuori da te e si traduce sulla pagina in un’immagine libera di quel peso.

Non avere fretta

La memoria ha bisogno di tempo. Non si può scrivere subito, serve lasciar decantare. Sedimentare. Quanto? Questo dipende da te, dal tuo coinvolgimento emotivo dai fatti che racconti, dalla distanza che nel tempo hai messo tra te e ciò che vuoi raccontare. Il momento giusto per scrivere non è quando il dolore è scomparso – spesso non accade mai – ma quando riesci a guardarlo senza esserne inghiottito. Quando diventa possibile trasformare quella ferita in parole, senza che le parole siano soltanto grido o sfogo. Allora la scrittura non è più un prolungamento della sofferenza, ma un modo per darle forma, per condividerla, per farla diventare esperienza che riguarda anche altri.

È un passaggio delicato e personale e riconoscerlo con sincerità, senza forzare i tempi, è il primo passo per arrivare a scriverne in maniera letteraria.

Non aver paura, a volte occorrono anni. A volte non bastano. È una condizione assolutamente normale. Sana, umana.

Accetta la guida di uno sguardo esterno

Un editor, se ha sensibilità ed esperienza, diventa un alleato prezioso per trovare la forma giusta. Trovare quella benedetta giusta distanza da soli appare quasi utopico, non sai cosa tagliare, cosa lasciare, cosa mettere a fuoco, il caos offusca la capacità cognitiva. Considera di rivolgerti a un professionista che ti aiuti a guardare la tua storia con uno sguardo esterno; non giudicante, non freddo, ma capace di rispettare la tua verità intima e al contempo di aiutarti a trasformarla in racconto letterario. La sua sensibilità sarà fondamentale, perché occorre ascoltare, capire, intuire cosa non viene detto, cosa invece è di troppo. Serve tatto. Molti autori alle prime armi sottovalutano questo passaggio: credono che basti scrivere tutto e poi “sistemare la forma”. Ma nel memoir non funziona così. La forma è parte integrante del contenuto. Senza un lavoro di distillazione e cura, il rischio di restare prigionieri della cronaca caricandola delle proprie emozioni è molto alto. Il risultato? Qualcosa che può andare bene da far leggere ai tuoi cari, gli amici che hanno vissuto insieme a te quei fatti o che ti vogliono conoscere meglio. Ma, e l’abbiamo visto, per rendere universale il tuo percorso è necessario scrivere da scrittori. E un editor – purché dotato di grande capacità empatica – può aiutarti.

Scrivere di sé è uno degli atti più coraggiosi che esistano. Non è semplice, non è indolore. Ma può diventare un atto terapeutico, di liberazione e di verità. La differenza la fa il modo in cui si sceglie di raccontare: non come confessione privata, ma come gesto di condivisione, come forma letteraria.

Terapia e gioia della condivisione.

Ogni memoria custodita in silenzio è in una stanza chiusa, che ci consuma lentamente. Scriverla è spalancare la porta e scoprire che fuori c’è chi aspettava proprio quella luce, perché persino il dolore, quando trova le parole giuste, smette di essere soltanto nostro.

Non è solo la tua storia: se la racconti con verità e misura può diventare specchio, conforto e rivelazione per chi legge. Vale la pena custodirla in silenzio, quando può essere dono condiviso?

Una storia scritta al maschile: perché la letteratura italiana ha dimenticato le sue autrici

In quasi mille anni di storia letteraria, da San Francesco a Calvino, la produzione culturale italiana è stata raccontata – nei programmi scolastici – quasi esclusivamente al maschile. Lo confermano le autrici Sharon Hecker e Catherine Ramsey-Portolano in Female Cultural Production in Modern Italy (Palgrave, 2023), saggio-report di una ricerca da loro condotta sui piani di studio italiani: i testi universitari di letteratura esaminati non includono autrici donne.

Ma la letteratura è specchio di una società e racconta la vita di un popolo, di un Paese, di una cultura; è riflesso delle esperienze umane. Appare evidente come una letteratura priva del contributo femminile sia deficitaria e, alla luce di queste considerazioni, è legittimo chiedersi se non sia giunto il momento di revisionare i programmi scolastici. Per capire l’importanza di tale riforma è necessario esplorare come la storica esclusione delle autrici abbia influenzato la rappresentazione della cultura italiana.

Non si tratterebbe soltanto di una riforma scolastica, ma di un gesto capace di scardinare simbolicamente il regime patriarcale che ancora condiziona la società contemporanea. Paradossale che proprio dall’ambito accademico, luogo dell’intelletto e del pensiero critico, – ambiente dal quale sarebbe più che lecito aspettarsi un’apertura verso l’inclusività e la parità di genere – provenga questa chiusura.

Anche il canone letterario sembra adeguarsi al riflesso dell’atavica consuetudine del nostro Paese di porre l’individuo maschio al centro della società. Si consideri, ad esempio, ancora oggi la netta disparità tra generi nelle alte cariche delle aziende: i vertici aziendali del settore privato sono occupati solo per il 17% da donne (fonte Cnpr forum 11/2024); oppure si pensi al dibattito – sempre attuale e acceso – sull’abbandono dell’utilizzo del maschile sovraesteso, argomento che desta a tutt’oggi clamore e l’insofferenza di buona parte dell’opinione pubblica. Atteggiamento che non sorprende, se si considera che questa disparità affonda le sue radici in secoli di sistematiche dinamiche di esclusione femminile.

Del resto, uno dei motivi per cui le autrici donne sarebbero state escluse dai programmi scolastici è che le loro tracce storiche non sono arrivate a noi. Forse perché fino al secolo scorso, l’accessibilità all’istruzione per le donne era ancora prerogativa di poche elette (per lo più appartenenti a un elevato rango sociale), e di conseguenza ridotta era la possibilità di vedere pubblicata una loro opera. Eppure, fin dal Medioevo, l’Italia ha visto fiorire autrici di straordinario valore: Compiuta Donzella, ad esempio, prima poetessa in lingua volgare del XIII secolo, inserita nella raccolta poetica Vaticano latino 3793 (la stessa che conteneva componimenti di Dante, Guittone D’Arezzo, Giacomo da Lentini…), o Caterina da Siena, il cui Epistolario rappresenta un esempio importante di prosa medievale e nel 1500 fu pubblicato da Aldo Manuzio (lo stesso editore che, con la collaborazione di Pietro Bembo, diede alle stampe i classici da Petrarca e Dante). La questione dell’accessibilità all’istruzione è sicuramente centrale, ma non può essere l’unica spiegazione: il vero problema è stata la successiva cancellazione delle loro opere dal canone, secondo una precisa scelta culturale marginalizzante.

Privare intere generazioni di studenti della voce autoriale femminile significa impedire loro uno sguardo diverso da quello che ha guidato il Paese fino a ora. Significa rinunciare a una componente essenziale del nostro patrimonio culturale, condannando all’oblio testimonianze di inestimabile valore. Rimettere le autrici al centro non sarebbe solo un atto di giustizia letteraria, ma un modo per restituire alla cultura italiana la sua forma intera.

Hecker, Sharon, and Catherine Ramsey-Portolano. Female Cultural Production in Modern Italy : Literature, Art and Intellectual History. 1st ed. 2023. Cham: Springer International Publishing, 2023. Web.

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La rivista letteraria ProelioLab 7 è online

ProelioLab 7 è online. Nuovo numero, nuove storie, e ciò che siamo sempre stati: libertà, pace, indagine interiore.
In questo numero inauguriamo una nuova rubrica: Ronin, diari di viaggio. Il ronin è il samurai senza padrone. Vaga, cerca, combatte solo con se stesso. Naviga le civiltà. Il suo viaggio non è mai solo spostamento: è attenzione, postura errante, presenza nel mondo senza possesso. In questo numero, il naturalista e divulgatore scientifico Nicola Messina ci accompagna nel Golfo di Guinea.
Troverete anche tre racconti dall’Italia e uno da San Luis Potosí, Messico. Voci diverse, un’unica tensione: stare nel mondo, ascoltarlo, attraversarlo.

Potete scaricarlo gratuitamente qui.

Solo un gioco? Giochi di ruolo online, furti virtuali e il loro impatto sociale

Vi racconto una storia. Piuttosto semplice, fra le più antiche e ovvie. Un mio amico è stato attaccato e derubato di tutto. Ma in un videogioco. Albion Online, per l’esattezza. Stava portando le sue merci in città quando un altro giocatore l’ha attaccato. In un attimo si è visto portare via tutto: soldi, equipaggiamento, risorse accumulate faticosamente dopo ore di gioco. Il lavoro di giorni, svanito così.
“Ma è solo un gioco”, sento già dire.
Giusto. Per la maggior parte di noi lo è. Ma per qualcuno, persone in situazioni di particolare vulnerabilità, questi mondi virtuali possono rappresentare un’ancora di salvezza, e la perdita dei loro progressi può avere impatti ben più potenti di una semplice frustrazione.

Ha davvero senso un sistema di intrattenimento che espone i giocatori al rischio di perdere involontariamente, in un singolo incontro, i risultati di giorni di impegno?

Procediamo con ordine, e cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

Si chiamano MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game), e sono mondi virtuali in cui giocatori da ogni parte del mondo si incontrano e interagiscono. Immaginate un’ambientazione medieval-fantasy e immensi spazi virtuali popolati da migliaia di persone reali connesse da ogni angolo del pianeta. Ognuna di loro si crea un proprio personaggio e inizia una sorta di vita parallela. E come nella realtà, le strade che può intraprendere sono le più disparate.

Alcuni scelgono di lavorare, dedicandosi alla raccolta di risorse naturali come legno, metallo e pietre preziosi, altri alla caccia, altri all’artigianato realizzando oggetti come armi, vestiti o attrezzi da lavoro, cibi e bevande e così via. Altri preferiscono il commercio, comprando e vendendo beni per guadagnare e comprare proprietà, isole, allevare cavalli, costruire dimore… Vivono la loro vita tranquilla, creano gruppi, intrecciano vere e sincere amicizie. Per gli amanti dell’avventura e del combattimento, invece, Albion Online offre la possibilità di esplorare zone ricche di pericoli, affrontare creature minacciose e misurarsi in duelli con altri giocatori. E infine sì, proprio come nel mondo reale, c’è anche chi sceglie una soluzione più comoda: depredare gli altri del frutto del loro duro lavoro.

L'immagine mostra una schermata di gioco di Abion Online, uno dei molti MMORPG.
Un’immagine del gioco Albion Online. Ogni personaggio è governato da una persona che può abitare in ogni parte del mondo.

È bene ricordare che in questi mondi virtuali gli oggetti e la valuta di gioco non sono solo semplici pixel, ma il risultato concreto del tempo e dell’impegno investiti dai giocatori. In Albion Online, ad esempio, il sistema economico permette di acquistare valuta virtuale con denaro reale, creando un collegamento diretto tra il tempo trascorso nel gioco e un valore monetario effettivo. Va da sé che perdere tutto a causa di un furto, anche se “è solo un gioco”, non è una semplice frustrazione, specie per chi vi ha investito molto tempo e risorse. Il furto di in questo tipo di giochi rappresenta, a tutti gli effetti, un danno economico concreto. Reale. Ciò solleva diversi interrogativi sulla natura di tali azioni criminose e sulla loro potenziale implicazione anche a livello legale.

In Albion Online non ci sono regole che proteggano completamente i giocatori. In alcune zone, infatti, l’incontro con un altro giocatore può trasformarsi in un’aggressione e nella perdita di tutto ciò che si porta con sé. Alcuni player sostengono che non ci sia da lamentarsi, che il gioco non sia altro che la copia di una società complessa, con le sue dinamiche economiche, i suoi conflitti e, purtroppo, anche la sua criminalità.

Va detto che il PvP (Player vs Player, giocatore contro giocatore) con perdita di oggetti ha una lunga tradizione nei giochi online, e parte del suo fascino risiede proprio nella tensione, nella paura di perdere qualcosa di importante. Ma se questa dinamica si traduce in una forma di sopraffazione sistematica – con gruppi organizzati che sfruttano la disparità di potere per colpire giocatori meno attrezzati – allora il rischio è di alienare una parte della community e trasformare il gioco in un’esperienza tossica per molti. Ci si potrebbe interrogare, a questo punto, sul perché qualcuno desideri investire il proprio tempo libero in attività che ricalcano le dinamiche stressanti e ansiogene da cui cerca rifugio, ma il punto è un altro. Se l’intenzione è davvero quella di replicare la complessità della società reale all’interno di un mondo virtuale, allora non sarebbe necessaria anche qui la presenza di un ordine costituito? Parliamo di istituzioni, regolamenti chiari, leggi da rispettare e forze dell’ordine che le facciano applicare. Nella realtà, rubare comporta un rischio concreto di subire conseguenze legali. Perché qui no?

Anche in Albion Online, potrebbe obiettare qualcuno, chi ruba rischia qualcosa: di incontrare qualcuno più forte di lui e perdere tutto a sua volta. Ma chi fa questo tipo di obiezione non tiene conto di un fattore importante già menzionato. Ossia che in questo tipo di giochi vige la disparità di potere/potenza/forza tra i giocatori. Alcuni individui o gruppi investono significativamente il loro tempo (e, come abbiamo visto, anche denaro reale) nel rinforzare i propri personaggi, sviluppando abilità superiori e acquisendo equipaggiamento di alto livello. Questo crea una marcata differenza di forza rispetto a giocatori che magari dedicano il loro tempo ad attività più pacifiche come la raccolta di risorse o l’artigianato – o semplicemente a costruire amicizie o amori, ma di questo parliamo tra poco.

Spesso, chi intende derubare altri personaggi seleziona accuratamente le proprie vittime, puntando a giocatori che appaiono meno equipaggiati o meno abili nel combattimento, minimizzando di fatto il rischio di subire a propria volta delle perdite. La selezione è facilitata da elementi visibili nel gioco: ad esempio, un giocatore che viaggia per raccogliere risorse è spesso riconoscibile per la presenza di un toro, una cavalcatura lenta ma utilizzata per trasportare grandi quantità di materiali. Questa visibilità rende i raccoglitori un bersaglio particolarmente vulnerabile e attraente per chi mira a ottenere un bottino facile e, appunto, senza rischi. La mancanza di un sistema di giustizia virtuale efficace e la significativa disparità di potere rendono il ‘rischio’ per chi ruba un elemento relativo e sempre calcolato a proprio vantaggio.

Ma spingiamoci oltre la mera questione economica.

Abbiamo accennato all’inizio a una realtà spesso ignorata o liquidata con superficialità, ossia che per alcune persone, questi mondi virtuali rappresentano una parte importante, se non la totalità, della loro vita sociale e delle loro interazioni. Sento già chi denigra: ‘sfigati’. Ma prima di lasciarsi andare a giudizi affrettati, è meglio fermarsi a considerare prospettive diverse.

Su Netlix è disponibile un documentario norvegese che si chiama La vita straordinaria di Ibelin. È un docu-film che racconta la storia di Mats Steen, un giovane giocatore di World of Warcraft (altro famosissimo e partecipatissimo MMORPG) affetto da distrofia muscolare, per il quale il mondo virtuale non era solo un passatempo, ma un vero e proprio spazio di vita, di relazioni e di avventura; Ibelin era il nome del personaggio che usava nel gioco. I suoi genitori, dopo la morte del figlio a soli 25 anni, scoprirono esplorandolo che grazie a quel gioco, a quello spazio di connessione virtuale, Matt aveva intrecciato profonde e genuine amicizie, lasciando un segno indelebile nella vita di molti. In un mondo virtuale. Il solo in cui avesse trovato il modo per costruire rapporti. Un amore. O per abbracciare la propria madre, prima di morire.

Esistono persone che a causa di gravi disabilità fisiche si trovano confinate in un letto o su una sedia a rotelle senza possibilità di interagire con il mondo esterno. Per loro, questo tipo di giochi può rappresentare una finestra sul mondo, un luogo dove poter muoversi, interagire con altri, stringere amicizie significative, sentirsi parte di una comunità, raggiungere obiettivi e ottenere un riconoscimento che la loro condizione fisica spesso nega loro nella vita reale.

Pesiamola adesso, in questo contesto, da questa prospettiva l’esperienza di essere derubati e privati dei propri oggetti cari, per i quali si è investito ore di vita. È ancora “solo un gioco”? O in certi casi un furto può assumere una valenza ben più profonda della semplice perdita economica o del tempo speso? Vedere vanificati sforzi immensi può aggravare la sensazione di impotenza di fronte a un’ingiustizia già vissuta nella realtà, amplificata in un ambiente che dovrebbe rappresentare un’importante sfera sociale e una possibilità di realizzazione personale. Di rivalsa. Di salvezza.

Ritorniamo allora alla domanda iniziale. Ha davvero senso un tipo di gioco di questo tipo?

Ne abbiamo parlato con due esperti di giochi di ruolo, online e offline.

ZOLTAR, divulgatore di Dungeon&Dragons, playtester ufficiale

“Faccio parte della generazione che ha giocato a Ultima Online del 1997, uno tra i primi MMORPG mondiali. Era un vero e proprio far west, dove non esistevano nemmeno precedenti che la software house potesse applicare prima dell’uscita del gioco. Tutto veniva corretto quando esplodeva il problema sia bug sia comportamenti nocivi (PvP).

Il mio unico consiglio è quello di accettare che si faccia parte di un gioco più ampio, non è il classico gioco in cui si deve arrivare alla fine da soli.

Replicare quello che ha fatto l’uomo nella sua evoluzione: essere parte di una comunità più grande, allearsi, difendersi reciprocamente, costituire delle regole di gruppo. L’uomo l’ha fatto prima proteggendosi nelle grotte, poi sono arrivati i villaggi, le palizzate, i castelli, istituendo leggi e corpi di guardia. Come si suol dire: “Uniti resistiamo, divisi cadiamo”.


FBS, graphic&game designer

La risposta alla domanda non è facile dato che il problema evidenziato è in realtà una commistione. Dovessi dare una risposta secca direi: “SÌ, ha senso questo tipo di gioco”, ma è la genesi dell’opinione la cosa interessante. E tanto per chiarire: ci sono passato anche io e nel tempo ho digerito e razionalizzato il tutto in un modo inaspettato.

Diciamo fin da subito che nel nostro caso la colpa ce l’ha il giocatore derubato: doveva informarsi sul tipo di gioco che stava per iniziare, dato che il vanto di Albion, ma anche di altri titoli come Darkfall, Day Z, Eve Online ed Elite Dangerous, è dare al giocatore la libertà totale con minime conseguenze. Chi si lamenta sta solo battendo i piedi per terra come un bambino! È come iniziare il Destruction Derby lagnandosi degli incidenti! O giocare a Doom denunciando che un mostro ci ha ucciso… Non è che stesse giocando a Fifa e dal niente fosse arrivato qualcuno col Bazooka! I furti, lo scamming e il ganking sono il gioco nel caso dei titoli sopracitati, e i partecipanti provano piacere nel sapere che si stanno giocando decine di ore investite che possono sfumare in un attimo. Adrenaline Rush!
Poi è ovvio che non sia una sensazione per tutti e proprio per questo chi non è disposto ad andare all-in dovrebbe starci lontano o dedicarsi a titoli player-friendly come World of Warcraft, in cui il PvP (Player vs Player) è limitato a certe aree o missioni, e il giocatore può far crescere il suo Avatar in relativa tranquillità.
Se poi si vuole tagliare la testa al toro, ci sono molti titoli che hanno solo il PvE (Player vs Enemies) o comunità che, per il medesimo gioco PvP, organizzano server con regole specifiche o leggi più restrittive! L’ordine potrebbe venir fatto rispettare dai moderatori a suon di Ban (quando dal gioco si espelle un giocatore per tot tempo), da taglie o altri meccanismi integrati nell’esperienza. Basta cercare!

C’è però un lato oscuro in tutto ciò che si è detto: quando i produttori (senza scrupoli) decidono d’inserire sistemi per guadagnare soldi extra dai giocatori. Nel momento in cui si dà la possibilità di acquistare/cedere oggetti per soldi veri si crea un mercato, e quando il gioco diventa virale quel mercato può trasformarsi in una fonte di reddito per personaggi senza morale che, soprattutto in paesi poveri, creano vere e proprie farm e sistemi di scam a loro vantaggio. Poco importa che si tratti di vezzi estetici (abiti e skin), interi personaggi (Gacha?), armi per vincere facile (Pay to Win?) o livelli extra, quando si crea un mercato arrivano le mosche!
Si può fare poco o niente per cambiare la natura dell’uomo e il fatto che ormai i videogiochi siano stati sdoganati come intrattenimento per tutti, crea un effetto frattale della nostra società! Si ripete, cioè, nella medesima forma ma su scala diversa e fino a quando le autorità non prenderanno seriamente certi problemi nel gaming, il miglior sistema per sopravvivere continuerà ad essere l’informazione e il sale in zucca.

Strano gioco. L’unica mossa vincente è non giocare!” (Wargames)


Tornando al mio amico, fortunatamente per lui il gioco rappresentava solo un’oretta al giorno di distensione dai problemi della vita. Dopo il fatto mi ha chiesto:
“Ti è mai capitato di sentire quella morsa allo stomaco, quella sensazione di ingiustizia profonda quando qualcosa che ti appartiene, qualcosa per cui hai faticato, ti viene brutalmente portato via? Non parlo solo del furto fisico, ma di una violazione che lascia dentro uno strappo. Una brutalità, una violenza”.

Gli ho detto di sì. Un profondo senso di impotenza.

“Ecco, prova a immaginare quella sensazione amplificata, concentrata in un singolo istante. Un momento prima hai tutto ciò che hai costruito con impegno, forse per giorni interi, e di cui ti senti fiero. L’attimo dopo, il vuoto. Tutto sparito, portato via da qualcun altro. E tutto questo succede… in un videogioco! E allora capisci che non è più un’esperienza virtuale rilassante.”

Ha preso una decisione netta e immediata: ha disinstallato Albion Online. Forse cercava un’esperienza diversa, un luogo non governato dal caos, dove il tempo e l’impegno dedicati non potessero essere vanificati con tanta facilità a favore della prepotenza di qualcun altro. E alla fine, ha trovato un diverso titolo. Un gioco che, a suo dire, aveva capito l’importanza di un ambiente virtuale più equo e protettivo, per tutti i suoi giocatori.

Il consiglio di un personaggio di un altro MMORPG mostra come un altro tipo di attitudine sia possibile.
Sì. In generale cerca di essere gentile con gli altri. Ricorda che gli avventurieri come te sono persone vere con sentimenti veri. Se ti comporti in modo molesto o se crei problemi, potresti finire nei guai”. | Altri MMORPG fantasy, come RuneScape (da cui è tratto lo screenshot), si basano decisamente su altri paradigmi. Ecco infatti i consigli di uno dei personaggi che abitano questo mondo. Nel gioco si incontra anche una famiglia di Yeti che ha adottato una bambina umana, a proposito di inclusività; ma questo è un altro topos. Ma lo è davvero?

Le domande che ci siamo sin qui posti aprono un dibattito importante sul design dei mondi virtuali e sul tipo di esperienza che si desidera offrire. Da un lato, la libertà totale e le conseguenze reali delle azioni, come il furto e la perdita totale, possono creare un senso di immersione e di importanza delle proprie scelte. Dall’altro lato, questa stessa libertà può portare a dinamiche frustranti e ingiuste (e costituzionalmente illegali), soprattutto per chi non è interessato alla competizione aggressiva o non ha le risorse (tempo o denaro) per competere con giocatori più potenti. Limitare il PvP al consenso o mitigare le perdite potrebbe rendere l’esperienza di gioco più accessibile e meno stressante per una fetta più ampia di pubblico, promuovendo un ambiente più cooperativo e meno ostile, anche se questo andrebbe inevitabilmente a modificare la natura stessa di Albion Online, privandolo di quell’elemento di rischio e di imprevedibilità che per alcuni rappresenta il suo tratto distintivo.

La risposta alla grande domanda, quindi, non è univoca e dipende dalla visione che si ha del gioco e dal tipo di comunità che si intende costruire.

Per quanto mi riguarda, come il mio amico, preferisco un mondo più equo, protettivo e inclusivo. Un ecosistema che veda designer di giochi elettronici anteporre la domanda etica a quella economica nella produzione di un gioco destinato a coinvolgere la vita di centinaia di migliaia di persone. Sono istanze a loro modo culturali e sociali, che devono tassativamente conservare un punto di vista etico solido. Il senso della giustizia, ad esempio, di guadagnarsi le cose lealmente, di tolleranza, di solidarietà, di inclusione sociale dev’essere premiato. E dev’essere favorita la fruizione e il godimento di un gioco, di un passatempo, che può contribuire a forgiare positivamente il modo di pensare e di agire di intere generazioni di futuri adulti. Di future classi dirigenti.

Mondi virtuali che hanno in potenza la possibilità di cambiare il mondo. Quello vero.

Francesco Montonati

Libri che non vincono premi: cosa possiamo imparare da loro   

Quante volte abbiamo sentito parlare di Strega, Campiello, IoScrittore e chi più ne ha più ne metta. I premi letterari catturano l’attenzione dei media, riempiono le vetrine delle librerie e guidano spesso le nostre scelte di lettura. Ma cosa succede a tutti quei libri – la stragrande maggioranza – che non hanno mai vinto e forse mai vinceranno? Sono davvero poco meritevoli o hanno qualcosa da insegnarci che va oltre i riconoscimenti ufficiali? Spoiler: la seconda.

I premi non sono l’unica misura del valore letterario

Appare piuttosto evidente. La storia della letteratura è piena di esempi illuminanti in questo senso: Franz Kafka non ha mai ricevuto un premio importante durante la sua vita, eppure è considerato uno dei più grandi scrittori del ventesimo secolo. Il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, ora considerato un capolavoro della letteratura americana, ha ricevuto recensioni tiepide alla sua pubblicazione e venduto meno di 20mila copie prima della morte dell’autore – certo, viene da dire, ci metterei la firma; ma non è questo il punto.

Questi esempi (e sono innumerevoli i casi analoghi) ci ricordano che il valore di un libro non può essere misurato solo dai riconoscimenti ricevuti. Nessun premio può quantificare il valore della connessione che un libro è in grado di stabilire con i propri lettori, nessuna giuria sarà così oggettiva da giudicare senza preconcetti o che i gusti personali ne influenzino il giudizio. È umano.

Se fai mente locale, sono molti i libri che hai amato, che magari non hanno passato la selezione di una giuria. Va considerato anche che i meccanismi interni dei concorsi non sono sempre tra i più trasparenti. In alcuni di questi, grandi gruppi, interessi, lobby, si scontrano dietro le quinte, e il libro che vediamo levare al cielo dall’autore di turno accompagnato da un sonoro brindisi molte volte è il frutto di giochi diplomatici. Non il migliore.

Ma se i premi non sono l’unica misura del valore letterario, allora cosa rende davvero un libro speciale?

Ogni libro ha il suo pubblico

Non tutti i libri nascono per conquistare giurie di critici prestigiosi. Alcuni sono scritti per parlare direttamente al cuore del lettore, per rispondere a domande che bruciano nell’anima, o più semplicemente per intrattenere e far sognare.

Generi come il romance, il fantasy, o la narrativa di genere raramente trovano spazio nelle cerimonie dei grandi premi, eppure continuano a vendere migliaia di copie e a creare comunità appassionate di lettori fedeli. Opere che non cercano l’approvazione dell’establishment letterario, ma costruiscono ponti invisibili tra persone che condividono le stesse passioni.

Per esperienza ti dico che un buon editor sa riconoscere il valore di queste opere e lavora per affinare il manoscritto, per renderlo al meglio delle sue possibilità, non per compiacere i gusti di una giuria, ma per raggiungere con più efficacia il pubblico cui è destinato. Del resto, non esistono libri per tutti, ma forse libri perfetti per qualcuno.

La bellezza dell’autenticità

C’è qualcosa di profondamente toccante nei libri che non inseguono la perfezione formale, ma si concentrano sul raccontare storie autentiche con una voce unica e personale. E ahimè sono sempre più rari i casi in cui un autore scriva per dare autentica voce a istinti primordiali che lo muovono, invece che limitarsi a seguire il trend stilistico del momento. Per questo si leggono tanti libri senza una vera voce autoriale, tante storie in cui è l’autore che muove i personaggi in giro per una trama scalettata e stringente, dotata di tutti i punti drammaturgici predeterminati, ma senza anima. Senza guizzi. E sono tanti. Ma per fortuna non tutti.

Si pensi ad autori e autrici come Elena Ferrante, che prima di diventare un fenomeno globale ha conquistato i lettori con la sua rappresentazione cruda e sincera dell’amicizia femminile e che, candidata per ben due volte al Premio Strega, non l’ha mai vinto. O a scrittori come Charles Bukowski, la cui prosa grezza e imperfetta è diventata il suo marchio di fabbrica, legame diretto con generazioni di lettori che si sono riconosciuti e si riconoscono nella sua autenticità, e di premi neanche a parlarne. O, ancora, parlando nel dettaglio di opere, il libro Mandíbula della talentuosa scrittrice equadoriana Mónica Ojeda, finalista ai prestigiosi National Book Awards 2022 nella categoria di letteratura tradotta. Indovina? No, non ha vinto. Ed è lecito chiedersi come mai.

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I premi sono una fotografia di un momento storico

Il critico letterario Francesco De Sanctis insegnava che ogni opera non può essere analizzata in astratto, ma va contestualizzata, compresa all’interno del suo contesto storico-culturale; così anche le giurie dei premi letterari operano con lo stesso principio, lasciandosi influenzare dallo spirito del loro tempo. Con una differenza sostanziale, però. Mentre De Sanctis usava la prospettiva storica per arricchire la comprensione dei testi, le giurie spesso la trasformano in un filtro che premia principalmente ciò che rispecchia le preoccupazioni e i gusti, i valori estetici del momento, generando così un paradossale effetto limitante.

Questa tendenza a favorire opere in sintonia con l’attualità finisce per lasciare ai margini tutti quegli autori che osano sperimentare, che anticipano sensibilità future o che recuperano stili dimenticati. Autori che, ironia della sorte, sono proprio quegli scrittori “fuori/senza tempo” che – la storia della letteratura ce lo dimostra – potrebbero creare opere immortali, proprio perché il loro valore potrà essere pienamente apprezzato solo in un contesto storico-culturale che ancora deve venire. Si pensi a Dino Campana, con la sua raccolta Canti Orfici, ignorata mentre era in vita, e oggi considerata un capolavoro della poesia italiana del Novecento.

Ma cosa rende un libro “immortale”? Cosa fa sì che un’opera continui a parlare ai lettori attraverso decenni o secoli?

Intendiamoci, non stiamo sostenendo che il bel Paese sia pieno di talenti incompresi e che la Penisola pulluli di Pirandelli e Pavesi ancora da scoprire. Siamo solo a ricordare che è nella capacità di toccare qualcosa di universale, di scavare nelle profondità dell’esperienza umana che risiede il segreto della longevità letteraria. Testi che, pur nascendo in un contesto preciso, riescono a trascenderlo, parlando di emozioni, conflitti e domande ancestrali, istintuali, fondamentali che accompagnano l’umanità in ogni epoca. Pensiamo a Shakespeare, con le sue tragedie ancor oggi tassativamente inserite nei palinsesti teatrali, che dal 1600 a oggi trovano una connotazione fortissima in ogni epoca in cui sono lette o messe in scena. Forse è proprio questa la differenza: mentre i premi fotografano la funzionalità di un testo in un determinato momento, i classici immortali catturano ciò che rimane immutato nel costante fluire del tempo. Esistono ancora editori o riviste letterarie (come la nostra ProelioLab) che sanno riconoscere questi semi di eternità in un manoscritto acerbo, e editor professionisti in grado di aiutare l’autore a coltivarli fino a farli fiorire. Più raro, invece, che accada in una giuria di premio letterario.

Il vero premio è creare una connessione con il lettore

È vero, non potrai addobbare il tuo salotto con una coppa, una targa o una bottiglia di liquori. Ma il premio non è sempre qualcosa di fisico. Ho lavorato, una volta, con una scrittrice di 92 anni, ex giornalista Rai che aveva fatto della scrittura la sua vita, ma non si era mai cimentata in un romanzo. Era titubante sul futuro e sull’accoglienza da parte dei lettori. Addirittura sul completarlo o meno. Abbiamo lavorato sodo all’editing e dopo aver pubblicato il romanzo, l’autrice ha ricevuto una lettera da una lettrice. La lettera diceva: “Il tuo libro mi ha fatto sentire meno sola”. Non c’è premio al mondo che possa eguagliare il valore di queste parole, mi ha detto l’autrice. E ne sono convinto anch’io.

Perché, alla fine, è questo il motivo per cui scriviamo e leggiamo: per condividere esperienze, per espandere i nostri orizzonti, per sentirci meno soli nel nostro viaggio attraverso la vita. Un libro che riesce a creare questo tipo di connessione ha già vinto il premio più importante che esista. Anche se solo una persona grazie al nostro libro riesce a chiudere gli occhi e a vivere un’esperienza altra dalla sua routine è già un immenso regalo che facciamo come autori, e che ci facciamo come persone. Troppo spesso non ci soffermiamo a pensarci inglobati in una logica di vendite, di premi, di riconoscimenti, di apparizioni televisive. Ma scrivere non è questo. Scrivere è non pensare ad altro che a tirare fuori quello che ci brucia dentro.

Pensa al libro che ti ha influenzato di più nella vita. Quello che ti ha fatto piangere, ridere, o che ti ha fatto vedere il mondo con occhi nuovi. Certamente ciò che lo rende speciale non è un bollino dorato sulla copertina, ma quanto profondamente è risuonato con la tua esperienza personale.

E visto che lo abbiamo citato, ricordiamo anche le sue parole.

Charles Bukowski – E così vorresti fare lo scrittore?               

E cosi vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
A meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
Se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
Se lo fai per soldi o per
fama,
non farlo.
Se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
Se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
Se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.
Se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
Se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
Se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
Non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono e noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-compiacimento.
Le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato fino ad addormentarsi
per tipi come te.
Non aggiungerti a loro,
non farlo.
A meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
A meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
Quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sé
e continuerà
finché tu morirai o morirà in te.
Non c’è altro modo.
E non c’è mai stato.

Una riflessione finale

Se sei uno scrittore o una scrittrice con un testo in lavorazione, ricorda che non scrivi per vincere premi, ma per connetterti con i lettori. Per condividere la tua voce unica, la tua storia, la tua visione del mondo. Questo è ciò che conta davvero. Non cercare di imitare lo stile che pensi possa farti vincere premi, o peggio, farti vendere più copie. Sii coraggioso, fiero e fedele alla tua visione, alle tue esperienze, alla tua verità. È questa autenticità che può davvero creare una connessione intima con chi ti leggerà.

E se hai bisogno di una guida nel tuo percorso per dare forma a questa connessione, per affinare la tua voce senza snaturarla, ricorda che un editor non è solo qualcuno che corregge errori grammaticali. È un primo lettore, un alleato, qualcuno che crede nel potere delle tue parole e vuole aiutarti a farle brillare della luce più autentica possibile.

La funzione ‘Revisione’ di Word: uno strumento fondamentale per autrici e autori

Voglio condividere con voi un utile video tutorial sulla funzione “Revisione” di Word.

La funzione di Word “Revisione” è lo strumento che l’editor utilizza, nell’attuale era digitale, per trasmettervi le sue segnalazioni, annotare il testo e tenere traccia delle modifiche apportate, permettendovi di esaminarle e decidere se accettarle o meno.
Diventa perciò fondamentale per un autore o un’autrice che voglia lavorare efficacemente all’editing del proprio testo, conoscerlo e saperlo utilizzare al meglio.

Questo è un breve video in cui una simpatica voce artificiale, tanto per rimanere in tema di progresso tecnologico, vi guiderà passo dopo passo nell’utilizzo dello strumento.

L’ho redatto io, perciò se avete domande non esitate a chiedermi, sarò felice di poter essere utile.

Vi invito a guardare il video e a lasciare un commento con le vostre impressioni o domande; sarò felice di rispondervi e aiutarvi nel vostro percorso di scrittura.
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“La Vegetariana” di Han Kang: metamorfosi nel prisma della modernità sociale

Nel panorama della letteratura contemporanea, “La Vegetariana”, dell’autrice sudcoreana Han Kang (Adelphi), spicca come un’opera di singolare potenza allegorica, che attraverso un’architettura tripartita esplora le profondità dell’alienazione umana nella società moderna. Al centro della narrazione, la figura di Yeong-hye, una donna il cui rifiuto categorico di consumare carne si tramuta in un atto di sovversione esistenziale che trascende la mera scelta alimentare. La sua famiglia legge il suo gesto come un atto di ribellione e la ostracizza, abbandonandola a un solitario percorso di trasformazione personale.

La struttura del romanzo, articolata in tre movimenti, ciascuno narrato attraverso una diversa prospettiva, costituisce un raffinato dispositivo narrativo che illumina la progressiva metamorfosi della donna, senza mai realmente individuarla (se non forse nel titolo) come vera protagonista. La sua voce rimane infatti costantemente mediata. La osserviamo ad esempio nel primo capitolo attraverso lo sguardo stralunato del marito, emblematico modello di inadeguatezza borghese, che osserva e racconta gli strani comportamenti della consorte. Gli altri due capitoli sono narrati invece da un narratore esterno; prima dal punto di vista del cognato che, ossessionato dalla fusione tra carne e natura, ambisce a possedere sessualmente Yeong-hye cercando tramite lei un contatto con l’essenza della Natura per poi ritrarla traducendola in chiave artistica; poi, nel terzo capitolo, dal punto di vista della sorella, che cerca di ricondurre l’apparente delirio mistico di Yeong-hye entro i confini rassicuranti della diagnostica psichiatrica.

L’opera si inserisce con raffinata consapevolezza intertestuale nel solco della grande tradizione letteraria del topos della metamorfosi, stabilendo un dialogo profondo con i suoi predecessori più illustri. Il riferimento alle Metamorfosi ovidiane si intreccia sapientemente con l’eredità kafkiana, in particolare con la figura di Gregor Samsa, incarnazione fisica della perdita di identità e dell’isolamento sociale. È attraverso questa duplice lente interpretativa che Han Kang esplora il tema dell’alienazione contemporanea, dove la trasformazione fisica diviene metafora della disgregazione dell’identità sociale e dell’isolamento dell’individuo nella società moderna. Ma l’autrice trascende questi riferimenti per esplorare un territorio meno battuto, un luogo metafisico dove il corpo diviene metonimia dell’esistenza stessa. La trasformazione fisica della protagonista si configura come metafora di una più profonda ricerca di liberazione dalle costrizioni sociali e dalle strutture di potere che governano l’esperienza umana.

La narrazione si sviluppa in una caleidoscopica profusione di spazi indefiniti, una babele ermeneutica che si offre, quale vergine sacrificale, all’altare delle interpretazioni più ardite; dall’astrazione escatologica fino a un sibillino richiamo esistenzialista che si fa specchio della vanitas contemporanea. In questo labirinto semantico, Han Kang orchestra una sinfonia di significati che trascende la mera trama narrativa, elevandosi a parabola universale sulla condizione umana. La sua prosa, che ondeggia tra rarefazione e densità simbolica, intesse una trama di rimandi e suggestioni che trasformano la vicenda personale di Yeong-hye in un prisma attraverso cui si rifrangono le molteplici sfaccettature dell’esistenza contemporanea.

Han Kang utilizza uno stile di scrittura piuttosto piana, ora asciutta ora poetica, una prosa che appare caratterizzata da una costante tensione tra minimalismo ed elevazione lirica in un’apparente contraddizione stilistica che riflette il conflitto centrale dell’opera. L’equilibrio però non è sempre perfettamente mantenuto: in alcuni passaggi, infatti, la ricercata rarefazione del linguaggio rischia di dissolvere la sostanza narrativa in una vaghezza semantica che, pur aprendo spazi interpretativi, può risultare eccessivamente indeterminata. Come nel brano seguente:

La curva del collo è molto seducente e lo sguardo è aperto e amichevole.

O apparire stilisticamente involuta, con enunciati che arrancano contorti, accartocciandosi su se stessi:

Dopo che questi le ebbe detto che non pensava si trattasse di polmonite.

Han Kang, autrice de "La vegetariana"

Le criticità più evidenti emergono nella resa dialogica, in cui l’autrice (o la traduzione) sembra aver privilegiato una letteralità che compromette la raffinatezza complessiva dell’opera. Espressioni quali “Tesoro, posso spiegarti” nel momento dell’adulterio scoperto, o la banalità di “La prego, vada fuori; sta solo rendendo le cose più difficili” nella scena in ospedale, fino agli ingenui “Al diavolo, brutta strega” o “Dannazione, è bloccato!” si configurano come scivolamenti verso un registro da melodramma televisivo. Sono formule logore, che sembrano provenire dal doppiaggio di serie americane di secondo ordine piuttosto che dalla penna di un’autrice insignita del Premio Nobel. Queste scelte (autoriali o traduttive) minano la credibilità dei personaggi e creano una dissonanza stridente con l’elevata ambizione filosofica che permea il resto dell’opera.

La forza del romanzo risiede nella capacità di trasformare una scelta apparentemente semplice – il rifiuto alimentare della carne– in una profonda meditazione sulla natura dell’esistenza umana e sui limiti della libertà individuale nella società contemporanea. Ciò detto, pur riconoscendo all’opera una innegabile densità concettuale, che attraverso una struttura polifonica esplora le tensioni primigenie tra natura e cultura, corporeità e trascendenza, conformismo sociale e libertà individuale, la lettura non è lineare, veloce. La vaghezza già menzionata finisce spesso per restituire immagini alienanti, lontane, vaghe, e talvolta confuse, non sempre lineari e fruibili, rischiando di compromettere l’efficacia del testo, generando nel lettore – sia pur dotato di adeguati strumenti interpretativi – un potenziale senso di straniamento e disaffezione che potrebbe pregiudicare il pieno apprezzamento dell’opera nella sua interezza.

Francesco Montonati

Distribuzione e sopravvivenza: le sfide della piccola e media editoria

L’editoria italiana è un ecosistema complesso e intessuto di meccanismi nascosti, molti dei quali sconosciuti alla stragrande maggioranza dei suoi fruitori. Le librerie sono affollate di lettori che passeggiano fra gli scaffali in cerca della loro prossima lettura, eppure non sono molti, fra loro, ad avere una reale conoscenza della filiera editoriale, del lungo percorso cioè che il libro adocchiato sullo scaffale ha compiuto prima di arrivare lì. Così come molto poco conosciuto è anche uno dei nodi più grandi del mercato editoriale attuale, un problema che, se non affrontato al più presto e in maniera adeguata, rischia di compromettere il futuro e l’esistenza stessa della piccola e media editoria: il monopolio della distribuzione. Attualmente, in Italia, pochi gruppi di dimensioni considerevoli controllano infatti l’intero comparto distributivo, avendo così la facoltà di stabilire, oltre a costi e modalità, quali libri possono raggiungere le librerie e, di conseguenza, quali autori (e soprattutto quali case editrici) possono arrivare al pubblico. Si pensi, ad esempio, che già nel 2020, da sola, la principale azienda di distribuzione Messaggerie Libri copriva circa il 40% del mercato distribuendo oltre 600 marchi editoriali in circa 4.000 punti vendita (Ranfa 2020; p.135). Va da sé che un sistema monopolistico di questo tipo comporta gravi rischi per la diversità culturale e intellettuale, con la potenziale marginalizzazione di opere innovative o le cui linee non rispettano il modello imposto. Di fronte a questi rischi sistemici, l’editoria indipendente osserva con timore il dipanarsi degli eventi, cercando strategie per contrastare la tendenza e trovare soluzioni. Al fine di facilitare la comprensione del lettore circa la portata di tali criticità, appare opportuno delineare la struttura della filiera, il funzionamento della distribuzione e il suo modello attuale, per favorire una valutazione più organica dei rischi associati. Innanzitutto, definiamo le tappe che compie il libro prima di arrivare in libreria.

Tre sono le attività svolte in questo percorso: promozione, logistica e distribuzione. La promozione assolve a funzioni strategiche decisive per il successo di un libro, in questa fase infatti gli agenti/commerciali promuovono presso librai e rivenditori i libri in uscita; il più delle volte, in questa fase il libro non è ancora stato stampato. La logistica si occupa della movimentazione fisica del prodotto, ossia del trasferimento dal magazzino al punto vendita, mentre la distribuzione si concentra sulla parte amministrativa nei suoi vari aspetti: organizzazione delle spedizioni di novità e ristampe, elaborazione ed evasione delle richieste di rifornimento, gestione dei flussi di resi, fornitura all’editore dei dati relativi a giacenze e vendite, contabilità di magazzino e gestione della fatturazione e dell’incasso. Negli ultimi anni, dopo una serie di acquisizioni societarie, il panorama della distribuzione nel mercato librario italiano ha subito una drastica contrazione portando allo stato attuale in cui due grandi gruppi si spartiscono il mercato. Questi sono Emme libri (nata nel 2015 dall’unione di Messaggerie con il gruppo Feltrinelli) e Mondadori (che nel 2016 ha acquisito Rcs Libri), che controllano rispettivamente il 58 e il 38% del mercato (Barbera, 2015). Appare perciò evidente come l’attuale sistema non possa che favorire i marchi editoriali legati a questi grandi gruppi penalizzando i piccoli editori indipendenti, che non appartengono né a catene né a marchi.

Il festival Sherbook 2024, che ha riunito a Padova diversi rappresentanti dell’editoria indipendente, ha evidenziato come molte realtà editoriali non godano di una vera indipendenza, proprio a causa del sistema oligopolico della distribuzione. Sono state ricordate le diverse criticità strutturali del sistema, come la sovrapproduzione non giustificata, a fronte peraltro di una costante diminuzione di lettori, i costi insostenibili per promozione e distribuzione – la distribuzione rappresenta la spesa maggiore per un editore in termini di percentuale sul prezzo del libro, arrivando a costare fino al 50-60% del prezzo di copertina (Rega, 2020) – e il controllo centralizzato che favorisce le case editrici appartenenti ai grandi gruppi. È importante per la comprensione del problema considerare che, per un editore, la distribuzione non è solo un servizio ma una condizione vitale di esistenza sul mercato. È il sistema distributivo a stabilire infatti se un libro possa o meno arrivare alle librerie, e può passare attraverso le sue dinamiche il successo o il fallimento di un libro, di un progetto, di un marchio.

Di fronte a queste premesse appare evidente come l’impianto attuale rischi di annientare l’editoria indipendente, la cui scomparsa avrebbe pesanti ripercussioni sulla realtà sociale del nostro Paese. Minacce non solo per gli editori, ma anche per librerie e lettori e, più in generale, per l’intero panorama culturale. Le case editrici indipendenti, per sopravvivere in un mercato così saturo (con oltre 80mila pubblicazioni l’anno), tendono a puntare sulla qualità, ritagliandosi una nicchia e un’identità ben definita. La loro scomparsa appiattirebbe la proposta limitandola ai best-seller imposti dai gruppi editoriali (gli stessi gruppi che controllano anche la distribuzione) e tale processo potrebbe portare anche alla graduale scomparsa delle librerie indipendenti, destinate a essere inglobate dalle catene di proprietà degli stessi gruppi. Uno scenario certamente poco auspicabile, ma davvero senza via d’uscita?

Negli ultimi anni sono state avanzate proposte e si è discusso circa l’avvio di progetti cooperativi volti ad affrontare queste criticità. Alcuni editori, ad esempio, scelgono di affidare la distribuzione a piccoli distributori indipendenti che, pur non garantendo la presenza dei libri sugli scaffali delle librerie di catena, riforniscono i principali grossisti e assicurano la spedizione, su richiesta, dei volumi in tutta Italia, contenendo il fenomeno dei resi e il pericolo di mandare al macero copie invendute. Le fiere di settore rappresentano un ulteriore strumento a disposizione delle piccole case editrici per entrare in contatto diretto con i lettori, eliminando qualsiasi intermediazione. Parallelamente alcune realtà hanno adottato il modello del print on demand, che consiste nella stampa digitale del solo numero di copie effettivamente ordinato dal cliente finale, con successiva distribuzione diretta. Questo sistema, pur eliminando gli intermediari, sacrifica la presenza del libro sugli scaffali delle librerie e quindi l’elemento tipico di serendipità offerto dal passeggiare tra i volumi. Se è vero, quindi, che il panorama attuale presenta criticità e rischi concreti, è anche vero che iniziative già in essere dimostrano un impegno proattivo nel ricercare vie alternative, sperimentando modelli distributivi innovativi e più sostenibili. Preservare lo spazio di diversità culturale e la bibliodiversità – patrimonio che l’editoria indipendente ha saputo costruire e ha garantito nel tempo – dovrebbe costituire una priorità, non solo per il settore editoriale ma per l’intero sistema culturale. Le attuali instabili condizioni del mercato non consentono previsioni certe, ma sembra chiaro che il futuro dell’editoria italiana dipenderà dalla capacità degli attori coinvolti di collaborare in modo innovativo e sostenibile. Un dialogo aperto tra editori, distributori e librerie potrebbe essere la base per costruire un nuovo modello di distribuzione, più democratico e inclusivo, capace di garantire a ogni voce il proprio spazio nel panorama culturale del Paese.

Francesco Montonati


Elena, Ranfa
2020    Il ruolo della promozione e della distribuzione nella filiera del libro: orientarsi nel dedalo dell’editoria italiana, in «AIB Studi», vol. 60: 131-142.

Barbera,  Gianluca 
2015    Il vero incubo per i “piccoli” è la distribuzione in libreria, «Il Giornale», 7 ottobre 2015, consultato il 27 novembre 2024, on line all’indirizzo https://www.ilgiornale.it/news/cultura/vero-incubo-i-piccoli-distribuzione-libreria-1179790.html

Rega, Roberta
2020    Piccoli editori: il grande problema della distribuzione, «L’Eurispes.it»,20 settembre 2020,consultato online il 4 dicembre 2024 all’indirizzo https://www.leurispes.it/piccoli-editori-il-grande-problema-della-distribuzione/

Redazione «Sherbook.it» 
2024    Monopolio e finanziarizzazione: cosa si nasconde nella distribuzione editoriale, «Sherbook.it», 13 febbraio 2024, articolo consultato il 22 dicembre 2024, on line all’indirizzo https://www.sherwood.it/articolo/9751/monopolio-e-finanziarizzazione-cosa-si-nasconde-nella-distribuzione-editoriale

“Gli interrotti” di Veronica Vantini: la poesia del quotidiano

Gli interrotti di Veronica Vantini (2024, BookTribu) è una silloge che esplora, attraverso uno stile evocativo fatto di immagini dense e precise, le tre età dell’uomo: infanzia, età adulta, vecchiaia. Al centro, la fragilità umana, declinata nelle sue infinite sfumature, osservata nei piccoli e grandi tormenti che attraversano l’esistenza.

La prima sezione, dedicata all’infanzia, è forse quella che raggiunge la massima potenza espressiva, dove l’autrice riesce con una scrittura sincera a catturare con rara sensibilità quel territorio inesplorato fatto di emozioni ancora sconosciute e incomprensibili. Come nel racconto “Non si fa”, in cui un bambino scopre sensazioni nuove spiando la zia mentre si strucca:

Mi avvicino e metto l’occhio nel buco della serratura. C’è un mondo che mi cattura. Zia si sta struccando. Mette del liquido sul cotone, lo passa nell’occhio con cura, poi nell’altro. Ora il suo viso è più bianco ma anche più giovane. Poi si toglie la gonna e rimane con quelle calze strane. Non le ho mai viste a mamma. Sento di nuovo il sangue alla testa che corre veloce e per un attimo ho paura.

Veronica Vantini
L’autrice del libro Gli interrotti, Veronica Vantini

In poche righe, Vantini riesce a restituire quel momento preciso di transizione, quando l’innocenza dell’infanzia inizia a incrinarsi di fronte alle prime pulsioni incomprese.
La scrittura si fa particolarmente incisiva quando l’autrice affronta le realtà più difficili, quelle al margine, dove si muovono personaggi segnati da genitori violenti, da assenze e solitudini. “Vi spiavo e disegnavo le sue urla con pastelli di scuola. Il suo sorriso quando usciva da quella stanza era immenso, e come una gonna ad ampie falde ci nascondeva sotto le tue botte”. Il racconto della violenza domestica attraverso lo sguardo straniato dell’infanzia, che trasforma il trauma in poesia. La bambina sublima il dolore attraverso l’arte, usando semplici pastelli da scuola – strumenti umili, che ricordano la sfida di cui parlava Hemingway: scrivere pagine immortali usando parole da venti centesimi. Allo stesso modo, l’autrice trasforma l’ordinario in straordinario, il dolore in gesto artistico.

I racconti, pur nella loro brevità – quasi aforistica, a volte – creano una galleria di istantanee di umanità che rimangono impresse. Come lampi che illuminano vite ai margini, questi frammenti narrativi riescono a far affezionare il lettore ai personaggi, lasciando spesso il desiderio di saperne di più, di vedere quelle esistenze svilupparsi in narrazioni più ampie. “

Il vento è impazzito e si sta mangiando a pezzi la città.

Con frasi evocative l’autrice allarga il suo sguardo poetico sulla realtà. Canta con l’anima, quando cavalca sul dorso dell’emozione istintuale, quando si specchia senza paura nelle vite che racconta. Ed è in questi momenti che la sua scrittura raggiunge vette di sincerità espressiva che colpiscono il lettore, lasciandolo con la sensazione di aver spiato, attraverso il buco della serratura, frammenti di vite autentiche. Interrotte, ma non per questo meno significative.