L’essenza nella parola, la poesia secondo Alessandro Lago

 “Se davvero esiste una Musa, credo che passi le giornate ridendo delle pose che molti assumono per darsi la patente di poeta o di poetessa”.
Primo appuntamento per la sezione Scrittura e oltre, in cui scambierò quattro chiacchiere con artisti che utilizzano la scrittura, la poetica, la filosofia nella loro attività. Oggi è mio ospite il poeta Alessandro Lago, autore della pagina Instagram Parole dove siete? (e dell’omonima raccolta poetica), che ci racconta il suo modo di intendere poesia e scrittura, rivelando con sincerità le sue motivazioni e le sue urgenze.

Nell’immaginario collettivo spesso al concetto lato di poesia si associa la figura del poeta schivo e dannato, che veste alla bohémienne ed è talmente poco incline alla socialità che alla compagnia umana preferisce quella della bottiglia di assenzio. È un’immagine estremizzata e stereotipata, però davvero per molti la poesia è ancora qualcosa di inconcepibile, quasi esoterica, eretica, appannaggio di pochi eletti. Con la tua poetica invece sembra che tu tenda a voler sfatare questo mito con ironia e levità. Come intendi tu la poesia, cos’è per te? Come vedi te stesso, come poeta, all’interno della poesia?

Credo che la poesia inviti a essere se stessi. Se davvero esiste una Musa, credo che passi le giornate ridendo delle pose che molti assumono per darsi la patente di poeta o di poetessa. Il vestito giusto, la foto con lo sguardo tenebroso, una biografia dannata, che poi alle 9 di sera me li vedo molti di questi “bohémienne” addormentarsi sul divano guardando la tv. Il punto, almeno per me, resta esprimere il lato più profondo di se stessi nel modo più sincero possibile. Se la poesia è viaggio e ricerca, occorre prendere la propria strada con il bagaglio il più leggero possibile, lasciandosi alle spalle gli stereotipi. Io non credo di essere un poeta, cerco solo di scrivere poesie al meglio delle mie possibilità, scrivendo e riscrivendo i miei versi finché non mi suonano autentici.

Chi sono i tuoi poeti di riferimento?

Ne ho parlato anche in un post sulla mia pagina Instagram, non molto tempo fa. I miei tre autori di riferimento sono Arthur Rimbaud, Dylan Thomas ed Emily Dickinson. In realtà ho una lunga lista di poeti che leggo con grande interesse, però di loro tre apprezzo la capacità di condurre il lettore con passo personale. Riescono a lasciare sempre una parte di mistero nella scrittura, in modo che chi legge possa appropriarsi dei loro versi e vedere oltre la superficie delle cose. Credo di avere uno stile molto diverso dal loro, forse per certi versi noto somiglianze con Emily Dickinson, ma quello che tengo ben stretto è il loro approccio alla scrittura, fatto di Visione e Stupore. Con la V e la S maiuscola, proprio per sottolineare che per scrivere e leggere poesie servono sforzo e disponibilità ad andare oltre la superficie delle cose senza accontentarsi dell’immediato.

Endecasillabi, pentametro giambico… Metrica. Pensi che la subordinazione del componimento poetico a una forma metrica sia un concetto superato?

Dico quello che molti non ammetterebbero nemmeno sotto tortura: per usare la metrica in modo nuovo e convincente bisogna essere dei Maestri e avere una padronanza delle tecniche poetiche che sfugge a noi comuni mortali. Io non sono in grado di farlo, lo ammetto.
Detto questo, la forma libera non deve essere una scusa per scrivere in modo sciatto e senza un attento lavoro di revisione del testo. In poesia ogni parola conta, così come il ritmo, ed è qualcosa che si può raggiungere anche tralasciando la metrica.

Le tue poesie sono tutte molto brevi, come sei arrivato alla maturazione di questo stile ermetico, di questa poetica d’essenza e di selettività della parola?

Da sempre prediligo la poesia breve e asciutta, perché credo servano poche parole per costruire un’immagine poetica, il resto è un contorno che elimino dopo aver fatto la prima stesura. Molte delle mie poesie, quando nascono, sono due o tre volte più lunghe della versione finale, poi man mano che le lavoro e le riscrivo si accorciano fino a raggiungere quello che ritengo l’essenza. Come lettore posso anche apprezzare componimenti lunghi, quando invece mi trovo a scriverli ne sento il peso. Ti dirò che questa sfrondatura progressiva è la parte che preferisco dello scrivere, perché mi permette di ragionare su ogni singola parola, che di solito scelgo tra quelle comuni.

Il tuo libro è una silloge di poesia e si chiama Parole, dove siete? Cosa intendi con questo titolo?

Il titolo deriva dal nome della mia pagina Instagram, appunto Parole dove siete. Questa frase me la sono ritrovata davanti agli occhi dopo molti anni che avevo smesso di scrivere. Era l’ultima frase che scrissi nel diario che tenevo all’epoca, perché mi sentivo incapace di trovare le parole necessarie a continuare a scrivere. Con questo spirito di ricerca della parola autentica, con un senso personale e sincero, mi sono rimesso in viaggio. Senza farne misticismi fuori luogo, credo che quel diario aspettava solo di essere riletto da me, dopo quasi dieci anni di vita vissuta. Quel “Parole dove siete?” mi è girato per la testa per qualche giorno e mi ha fatto rimettere a un tavolo per scrivere con rinnovato entusiasmo. Da qui ho aperto la pagina Instagram e mi sono rimesso a scrivere con continuità.

E come sei tornato alla scrittura, cosa ti ha motivato?

Si era conclusa da poco una relazione, sentivo che avevo molto da raccontare, per prima cosa a me stesso. Ero in viaggio all’estero e una sera ho preso carta e penna e iniziato a scrivere, così senza particolari obiettivi. Ho ritrovato il piacere di scrivere senza sforzi e, soprattutto, la chiarezza di pensiero che nasce segnando su carta una poesia. Tornato a casa ho cercato in un cassetto il mio vecchio diario, trovando appunto la scritta “Parole dove siete?” e ho dato un senso diverso agli anni trascorsi senza scrivere, un lento apprendistato sui temi di cui parlo nelle mie poesie.

Qualcuno pensa che l’amore senza poesia non potrebbe esistere, e che la poesia sia il solo mezzo per parlare di amore senza nominarlo – soltanto sotteso, a volte, un colore, un’ombra fra le parole. Anche se molte delle tue sono poesie ispirate da questo sentimento, non credo che la tua poetica si basi sull’amore.

Credo che l’amore, quindi l’incontro e lo scontro con l’altro, sia un passaggio di crescita personale e consapevolezza. Si impara che il senso sfugge, che le parole spesso non spiegano, che la vita corre sempre in avanti, che non si torna indietro eppure la malinconia non la spegni con un tasto, che qualcuno nemmeno meritava di essere al nostro fianco e, a volte, siamo stati noi per primi a non essere all’altezza dei sentimenti che abbiamo ricevuto. In tutto questo trovo lo sfuggente e l’incomprensibile che caratterizza la condizione umana, che poi è il tema centrale della poesia. Aveva ragione mio nonno: cercati una brava ragazza. Con questo intendeva di cercare una donna che renda più leggero il peso dell’esistenza.

In un rapporto di sostegno reciproco.

Questo è il senso dell’amore, prendersi cura dell’altro mentre accudiamo noi stessi, che poi è quello che fa anche l’arte. In mancanza dell’amore, resta comunque l’arte, che è sempre lì per aiutarci a spiegare a noi stessi chi siamo davvero sotto l’involucro della pelle.

La scrittrice statunitense Flannery O’Connor sosteneva che il fondamento morale della poesia sia il nominare in maniera accurata le cose di Dio. In questi termini sembra che la poesia debba necessariamente essere elevata per ritenersi tale.

Io credo nel duro lavoro. Nel momento in cui passo ore a cercare la frase giusta, la parola che si incastra con le altre suonando senza stonare, beh in quel momento credo di avvicinarmi al fondamento della poesia. Ed è curioso che bisogna raggiungere le fondamenta per poi elevarsi verso il Divino che nomina le cose e gli assegna un senso compiuto. Detto questo, la poesia per me non ha argomenti evitabili o raccomandabili. È uno sguardo sul mondo che include il tutto piuttosto che escluderne delle parti.

Per come la vedo io, poesia è il simbolico invisibile dietro la realtà, una sospensione di materia che prende forma soltanto attraverso le parole del poeta. Parole che non spiegano ma evocano, che non raccontano ma richiamano. Ho sentito poeti sostenere che la poesia va spiegata. Io penso il contrario. Tu come la vedi?

La penso come te. Credo che la poesia sia una soglia sulla porta di un piccolo segreto, che non va spiegato ma mostrato. Ognuno deve sentire la libertà di poter vedere facendo proprio il senso, che non significa stravolgerlo a piacimento ma piuttosto intraprendere un viaggio personale attraverso la suggestione proposta dal poeta. Si tratta di evocare, appunto. Da non confondersi con la scrittura di versi del tutto incomprensibili, perché chi scrive ha la grande responsabilità di comunicare un senso. Altrimenti non merita il tempo del lettore. 

Forse suona arrogante, ma spiegare le poesie è come essere un sussidiario per il lettore, un ottimo libro da usare nei primi anni di scuola, quando il senso critico personale è ancora in formazione. Da adulti, invece, è bene che ognuno abbia sempre qualcosa di suo da aggiungere per una lettura che raggiunga profondità e poi distanze.

Quanto di ciò che scrivi è frutto di un’esperienza personale diretta?

Io scrivo solo di cose che ho vissuto o che vivo. A volte uso il tempo presente per parlare di fatti lontani nel passato solo per raggiungere una certa sonorità, oppure per sfumare una nota che potrebbe essere troppo malinconica. E la troppa malinconia, credo, non è poesia ma piuttosto lagna, cioè un vissuto non mediato da un metodo di indagine artistica. Siamo appunto chiamati a costruire versi a partire dalle nostre esperienze, non a gettarle sul tavolo dicendo: io soffro. Questo non interessa, non credo sia poesia. Ogni esperienza contiene del poetico che può essere svelato e rivelato, si tratta solo di approcciarla con un atteggiamento di apertura e stupore.

In un tuo componimento poetico dici che le parole sono un maestrale che spinge barche alla deriva. È un’immagine evocativa e forte. Ma non pensi che qualche volte le parole, il maestrale a cui fai riferimento, possano congiungere o addirittura ri-congiungere?

Io credo che se le cose si potessero ricongiungere sarebbe la morte della poesia, che è canto dello sfuggente, tentativo di afferrare l’inafferrabile. Si vive per istanti di lucidità, bagliori, per poi tornare a faccende più terrene. Sembra pessimistico non vedere un lieto fine, ma non rinuncerei a un’ora di malinconia in cambio di un sorriso soddisfatto di qualcosa che rifiutiamo di comprendere nella sua grandezza. Credo sia questa la condizione umana, che a prima vista può sembrare una condanna quando invece è una spinta a vivere tutto con la più grande intensità possibile. Del mistero della vita ognuno comprende quello che può e quando può, e trovo che la poesia sia uno strumento di indagine straordinario.

Malinconia. La gioia dell’essere tristi, la definiva Victor Hugo.

Non la definirei una gioia, direi piuttosto la sensazione forte di essere vivi. Credo che il trucco sia sentire le emozioni senza farsi travolgere, piuttosto farne una lente di ingrandimento per conoscere se stessi. Ognuno ha la sua ricetta per stare al mondo, non dico che la mia sia migliore o che le altre siano sbagliate, dico solo che la poesia mi ha insegnato a cercare la strada per conoscere quello che sono, piuttosto che ignorarlo per diventare quello che gli altri si aspettano da me.

Come hai iniziato la tua carriera di poeta e come è nata la tua avventura Instagram. 

Ho iniziato a scrivere poesie da adolescente e per molti anni ho coltivato questa passione, dedicandomi anche alla scrittura di racconti. Poi, come dicevo, per un lungo periodo della mia vita ho smesso. Nel momento in cui ho ricominciato ho aperto la pagina Instagram, dopo appena qualche giorno. Per onestà, devo dire che di questo social e degli instapoeti me ne aveva parlato proprio la mia ex fidanzata molto tempo prima che tornassi a scrivere. Lei stessa mi aveva suggerito di ritornare alla poesia. Di questo la ringrazio, anche se ho cominciato a scrivere dopo la nostra rottura.

Quindi, dietro a quelle assenze, quelle pause riflessive, quelle lontananze, quegli incontri appassionati, dietro alla tua poesia c’è lei?

Le mie poesie non sono dedicate a una persona in particolare, fin da subito ho raccontato persone diverse che ho incontrato, o che incontro, e da cui prendo ispirazione. Questo spiega alcune incoerenze che mi sono state fatte notare da alcuni lettori. Forse è poco romantico ma a dire il vero non credo nelle dediche, scrivo per me stesso e per farne un oggetto di riflessione più generale sulla condizione umana. Le relazioni tra le persone sono una faccenda troppo importante per essere affrontate con una poesia. Se si può bisogna parlarsi, altrimenti  si può solo dimenticare. Come ho scritto in una mia poesia, dell’amore altro non so.

I tuoi progetti futuri?

Tra i miei progetti futuri c’è di sicuro quello di mantenere l’abitudine dello scrivere. Oggi sono tornato a farlo con continuità e sento di aver guadagnato un porto sicuro dove confrontarmi con me stesso, come se avessi costruito una stanza tutta per me in una casa che negli anni in cui non scrivevo era diventata stretta e opprimente.

Ci sono poeti che hanno canali YouTube in cui professano le loro leggi insindacabili. Oltre che parole e, di recente, una voce, ci hai mai pensato a divenire un volto?

L’aspetto della mia immagine pubblica, che di fatto non ho, è qualcosa che spesso mi viene fatto notare. Arriverà un giorno in cui mi mostrerò, la mia intenzione non è certo nascondermi. Il motivo per cui non ho un volto è perché vorrei che le persone si concentrassero solo su quello che scrivo. Stando appunto su Instagram, noto spesso quanto l’immagine pubblica abbia un peso nel diffondere le poesie. Siamo onesti: ci sono autori che  raccolgono molti consensi per il semplice fatto di essere piacenti, facendone uno strumento di seduzione. Per me, invece, è ancora il momento di concentrarmi solo sullo scrivere.

E quando capirai che sarà il momento giusto?

A un certo punto accadrà, così come quando ho ricominciato a scrivere per il piacere di farlo. Sarà un’evoluzione naturale. Non ho fretta e prima di muovere un passo devo sentirlo mio. Dopo di che, una volta presa una decisione, è più facile abbattermi che convincermi a stare fermo e riflettere. Ho la testa dura e ora mi dice di prendermi cura soltanto dello spirito con cui mi sono rimesso in viaggio per cercare parole.

Intervista di Francesco Montonati

06. Trovare la tua voce

Abbiamo parlato di voce, abbiamo capito cos’è. Adesso bisogna trovare la tua. Come? Ti suggerisco di partire togliendo. Te stesso.

Sembra un bizzarro paradosso ma quello che devi togliere dalla tua scrittura, per trovare la tua voce, sei tu. La scrittura del narratore inesperto è spesso compromessa dall’ossessiva ricerca di artifici e virtuosismi per mettersi in mostra come autore. Togli. Tutto quello che c’è in più, quello che aggiungi alla narrazione, togli. Commenti extradiegetici, aggettivi altisonanti, i maledetti avverbi di modo. Togli tutto. La scrittura più traslucida possibile. Ridotta all’osso la tua scrittura, ci sono buone probabilità che emerga il barlume tanto sperato, quello che segnala la presenza del filone d’oro. Scava e rigira finché non scorgi il barlume. Non uscirà subito, avrai bisogno tempo, di scavare. E scavare a fondo.

Leggi i grandi autori, cerca di individuarne l’anima, leggi finché non ti sanguinano gli occhi, e scrivi, smetti di scrivere solo quando la mano non riesce più a battere i tasti. È in quel momento che qualcosa può succedere. L’epifania. Quando sei stanco, quando fai attenzione a cosa scrivi ma non a come lo scrivi, è in quel momento che la fibra si spezza e se ne crea una nuova, più potente della prima.

Perché il pericolo, per te come autore, è di rimanere nel limbo in cui scrivi per piacere agli altri o a te stesso, o per impressionare, per non sbagliare, scrivi per raccontare come ti piacerebbe leggere. Ma la tua voce è un’altra, e tu neanche la conosci.
E lì non c’è che scrivere, scrivere e scrivere ancora. Non ti demoralizzare se non trovi subito la tua voce, è questione di tempo. Anni, a volte. Altre volte non si trova nemmeno. Molti autori di best seller non hanno una voce personale, ma soltanto delle buone storie. Quindi, se non la trovi subito, non disperare. Ma non smettere mai di cercarla.

05. Stile narrativo e voce autoriale, cosa sono e come trovare i propri

Non hai tempo di leggere? Ascolta il podcast.

C’è differenza tra voce autoriale e stile narrativo? Lo stile è il modo in cui il narratore racconta la vicenda. La voce è il fulcro da cui parte la narrazione, la voce personale dell’autore. Lo stesso stile può essere adottato da vari autori, ma la voce autoriale è il tratto distintivo, unico per ognuno di essi, ciò che li distingue.

Ma se per gli scrittori fosse così facile farla emergere non staremmo qui a parlarne. Prendi il libro che stai leggendo e fermati a pensare. Che tipo di stile sta usando il narratore?

Autore, narratore, voce e stile: un po’ di chiarezza. Narratore e autore non sono la stessa cosa. L’autore è chi scrive, il narratore chi narra. Questo l’abbiamo capito. Il narratore stesso è un’invenzione dell’autore. E la voce narrante è la voce del narratore, colui che presiede all’atto enunciativo. Bene, il primo punto è andato.
Veniamo al successivo.

Un registro alto, sostenuto, aulico, con periodi complessi, aggettivi e parole colte e rare?

Ci appressammo a quello che era stato il posto di lavoro di Adelmo, dove giacevano ancora i fogli di un salterio riccamente miniati. Erano folia di vellum finissimo – regina tra le pergamene – e l’ultimo era ancora fissato al tavolo (Il nome della Rosa, U.Eco).

O formale. Vocaboli ricercati, accurati ed eleganti, ma senza quei virtuosismi.

Già vedeva il proprio corpo là adagiato per il lungo, in un grembo di tepore, profumato dagli oli del sapone, mollemente carezzato dall’acqua (Ulisse, J. Joyce).

Potrebbe essere un registro medio, con vocaboli di uso comune e periodi semplici.

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma atipico dove l’eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere (Casino totale, J. C. Izzo).

Oppure semplice basso, colloquiale, dialettale, a imitare la sintassi tipica del parlato.

Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malepelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano (Rosso malpelo, G. Verga).

Ci sono vie di mezzo, ma era tanto per capirci. Questi sono chiari esempi di stile. Lo stile determina la scelta di una serie di fattori, di scelte pratiche della narrazione. Dalle parole alla costruzione sintattica, dalla focalizzazione alle figure retoriche, dall’uso delle sequenze al rapporto fra di esse.
C’è chi pensa che lo stile debba adeguarsi alla storia narrata e al target di riferimento.
C’è chi pensa che il proprio stile, per la sua unicità, valga l’acquisto del libro.
C’è chi pensa che usando il proprio stile le storie giuste arrivino da sole.
Leggendo questo post, ti sarai già fatto la tua idea. È importante che tu ne abbia una, magari influenzata da ciò che hai sentito dire da qualcuno che stimi, ma che sia tua. Avere il proprio punto di vista è il primo passo verso la scoperta della propria voce, nella vita come nella scrittura.
Se vuoi scrivere narrativa di genere dovrebbe bastare questo. Ma perché non alzare l’asticella?

Adesso che ti è chiaro cos’è lo stile, torniamo alla voce. Alcuni la chiamano tono. A me piace voce, perché la voce è sempre guidata da un tono. Adesso la tua voce vogliamo distinguerla.
Immagina i grandi romanzieri, di ognuno di loro distingui la voce. Parlando di letteratura americana prendiamo ad esempio Salinger, Steinbeck e Hemingway. Pur appartenendo più o meno alla stessa corrente letteraria e usando uno stile per certi versi simile – parole di uso comune, periodi chiari e frasi spesso brevi – ognuno di loro possiede una voce inconfondibile.
Leggi questi incipit, nota come ogni voce è in qualche modo diversa da quella di tutti gli altri e a modo suo distinguibile.

1) C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere».

2) Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri.

3) Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce.

4) Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.

5) Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica.

Sono incipit molto famosi, e ognuno comunica in modo differente. Sarebbe bello se questi cinque autori avessero scritto di un fatto comune, per confrontare i loro modi di esporre. Ma anche così ci danno la misura di quanto personale sia la scrittura di ognuno di loro. A proposito, li hai riconosciuti?

1) Ci accompagna in una riflessione con delicatezza, con garbo, periodi lunghi e ondulati, usando le stesso andamento con cui è tratteggiato il territorio collinare che menziona (La luna e i Falò, C. Pavese).

2) Secco, indolente, quasi con noncuranza ci comunica la morte di sua madre. Oggi, ieri? Poco importa (Lo straniero, A. Camus).

3) Come portata dalla brezza del mare del Golfo, ci arriva notizia di questo vecchio pescatore; in una riga già ne sappiamo abbastanza da interessarci a lui (Il vecchio e il mare, E. Hemingway).

4) Si cambia genere, andiamo sul Cyberpunk. Il ritratto del paesaggio è segnato dal progresso, il cielo sul porto non è plumbeo o funereo, è come la televisione su un canale morto (Neuromante, William Gibson).

5) Qui il narratore è schifato da quello che sta raccontando e non lo nasconde. Chirurgico nella sua descrizione, non ci risparmia particolari e ci restituisce il cupo senso di vuoto che aleggia (La metamorfosi, F. Kafka).

Ogni voce è quindi distinguibile. La voce del narratore deriva dal suo sguardo sulle cose e dal suo modo di rapportarsi ad esse, al mondo, alla vita. Cambiano i vissuti, gli studi, le frequentazioni, le letture, le confessioni religiose. Tutto influisce sul proprio modo di vedere la vita e di conseguenza di raccontarla. Quando lo scrittore non ha ancora trovato la propria voce, il rischio che corre è quello di imitare la voce di un autore che gli piace, finendo per riprodurne una copia sbiadita, magari lusinghiera, ma priva di anima e di efficacia.

Quindi la prima cosa da fare è trovare la tua voce. Scorgere l’anima nella tua scrittura e fare emergere, scevra da tutto ciò che è estrano, la tua voce. Unica e distintiva. Ma non ti abbattere se non ci riesci subito. È una delle cose più difficili.

04. Come gestire il punto di vista nel tuo romanzo?

Tra i ferri del mestiere dello scrittore, la focalizzazione è uno dei più importanti.
 Si tratta del punto di vista che adotta il narratore nel raccontare la storia e si distingue in:
• focalizzazione zero;
• focalizzazione interna;
• focalizzazione esterna.
Vediamole.
 
Focalizzazione zero (narratore onnisciente)
(Narratore extradiegetico)
Il narratore, alla stregua di un dio, conosce tutto. Ogni vicenda, ogni pensiero, ogni trama celata. È lui a decidere cosa, quando e come narrare gli eventi, e a volte ci aggiunge i suoi commenti. Nei Promessi sposi, il narratore si permette considerazioni, battute, si rivolge direttamente al lettore (anzi, ai suoi venticinque lettori).  In questa modalità il testo sarà variabilmente infarcito di sintagmi di legamento (vide, sentì, pensò).

All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario.
(I promessi sposi, A. Manzoni)



Focalizzazione interna
(narratore intradiegetico)
L’autore adotta il punto di vista di uno dei personaggi, quindi la storia è raccontata da chi la vive. Si può usare la prima persona (in questo modo è chiara la focalizzazione), ma anche la terza. La focalizzazione interna con la terza persona è ghiotta perché permette di utilizzare tecniche narrative interessanti, come il discorso indiretto libero, il monologo interiore, il flusso di coscienza. Non ricordi esattamente cosa siano? Non c’è problema, faremo un ripasso.
Questo tipo di focalizzazione può essere fissa, quando il punto di vista del narratore è sempre e solo quello di un personaggio, o variabile, quando si sposta di personaggio in personaggio a seconda del momento. Multipla, quando lo stesso fatto è visto e raccontato da vari punti di vista.
Attenzione, però. Il personaggio il cui punto di vista è adottato dal narratore può non essere il protagonista del plot. In questo caso viene denominato narratore allodiegetico, ma in questa sede ti importa poco delle sterili classificazioni, a te interessa imparare a usare queste tecniche.
Un paio di esempi? Il marinaio Ishmael, nel celebre Moby Dick di Herman Melville. Parla del proposito ossessivo del suo comandante Achab di scovare e uccidere la balena bianca, è quindi Achab il vero protagonista. E anche Sir Arthur Conan Doyle affida a un gregario il ruolo di narratore, è Watson infatti, nei libri di Sharlock Holmes, a raccontarne le gesta.
La focalizzazione interna dal punto di vista del protagonista con una narrazione in prima persona (narratore autodiegetico) è forse la focalizzazione più adatta a creare un’esperienza immersiva per il lettore ed è usatissima nella narrativa contemporanea.
La focalizzazione interna è spesso usata nei mistery, thriller, o gialli, per creare suspense. Il narratore (e quindi il lettore) non ne sa più del personaggio che sta scendendo per la prima volta le scale buie della cantina, da cui ha sentito arrivare quel suono.

Senza prestare attenzione a nulla, camminavo a grandi passi per la stanza e, credo, parlavo da solo. Era come se fossi stato salvato dalla morte e con tutto il mio essere lo percepivo gioiosamente.
(Memorie dal sottosuolo, F. Dostoevskij)

 

Focalizzazione esterna
La focalizzazione esterna pura è usata di rado. È una narrazione asettica, cronachistica, da reportage giornalistico super partes (se esistessero ancora giornalisti capaci di redigerne uno così). Allora non ci sono analisi, pensieri dei personaggi, valutazioni critiche, commenti. Solo i fatti, così come si svolgono.
Come focalizzazione è forse la più difficile da usare, occorre avere una grandissima padronanza del mezzo (scrittura). Un esempio famoso è il racconto Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway in cui di una tempesta intima interiore il narratore si limita a fotografare la superficie scabra.
È quasi un punto di vista cinematografico, il lettore segue come fosse un film, e conosce di volta in volta solo ciò che mostra la cinepresa.

La ragazza si alzò e camminò fino in fondo alla stazione. Dall’altra parte c’erano campi di grano e degli alberi lungo le rive dell’Ebro. Più lontano, di là del fiume, si levavano montagne. L’ombra di una nuvola si muoveva sul campo di grano ed ella guardò il fiume attraverso gli alberi.
«E si potrebbe avere tutto ciò» disse «e si potrebbe avere tutto, e ogni giorno ce lo rendiamo sempre più impossibile». 
(Colline come elefanti bianchi, E. Hemingway)



Quale usare? Bella domanda. Dovrei sapere cos’hai in mente, per risponderti. Ma così su due piedi il consiglio che ti do è questo: valuta bene quale punto di vista usare, e una volta deciso tienilo sempre a mente, durante la scrittura. Non abbandonarlo mai e non tradirlo. Perché una focalizzazione confusa fa subito pensare a un autore alle prime armi. La consapevolezza e il controllo del punto di vista sono virtù fondamentali per un bravo scrittore e rafforzano la sua scrittura e l’autorevolezza della sua voce. Ma di questo parleremo più avanti.

03. Parlando di narrazione

Fabula e intreccio
Avrai sentito parlare di fabula e intreccio. Fabula è la storia nel suo percorso lineare, i fatti uno dopo l’altro in ordine cronologico. Intreccio è come vuoi raccontarla. La successione dei fatti come li vuoi esporre, senza un ordine stabilito se non quello che tu, autore, definisci.
Il tuo modo per rendere interessante la tua narrazione parte da lì.
​L’esposizione lineare degli eventi può incuriosire, ma vediamo qualche trucchetto, chiamiamolo così, per incasinare la vita al lettore e rendere la tua storia ancora più intrigante.

Analessi e prolessi, anacronie
Quando si parla di intreccio, si parla di anacronie, ovvero delle discrepanze tra l’ordine cronologico degli eventi e l’ordine raccontato nella storia. Le due forme più comuni sono analessi e prolessi.
Analessi è il flashback, tornare indietro nel tempo della narrazione.
Prolessi è il flashforward, il salto in avanti.
Come si usano?
Il flashback l’avrai visto usare un milione di volte nei film, trasferiscilo in un testo e il gioco è fatto. Racconta un fatto antecedente alla narrazione. Lo usiamo, ad esempio, quando parliamo del passato dei nostri personaggi, oppure dopo un incipit in medias res. Iniziamo nel pieno svolgimento dei fatti e poi andiamo indietro nel tempo a vedere come si sono verificati e cosa ha portato al verificarsi di quei fatti. Si usa molto nei gialli; hai presente quando nella prima pagina c’è già il cadavere? Prima o poi vedremo cosa è successo prima. Ecco l’analessi.
Iniziare con il piede giusto un romanzo è la chiave per un buon incipit e per una buona narrazione in generale, visto che il coinvolgimento del lettore fin dalle prime pagine è di estrema importanza. Per questo spesso ci si trova a leggere romanzi che iniziano nel pieno dell’azione, e che poi tornano indietro nel tempo, nei successivi capitoli, per raccontare come si sia arrivati a quell’azione. Ma avremo modo di parlare di incipit in futuro, per adesso soffermiamoci sulle anacronie.
 
L’opposto dell’analessi è la prolessi. Uno degli esempi più famosi della prolessi in letteratura è l’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez.
 
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
 
Parte dalla fine, ci dice cosa succederà.
Toglie forse curiosità sapere il finale? Tutt’altro. Non sappiamo il finale, sappiamo solo che il padre di Aureliano finirà davanti a un plotone. Morirà o sarà graziato? Ci incuriosisce, altro che togliere interesse.
 
Parlavamo di libri gialli. Nel libro La fine è nota, di Geoffrey Holiday Hall (Sellerio 1990), il protagonista, rincasando, fa una scoperta: un tizio che lo stava aspettando nel suo appartamento si è appena gettato dalla finestra. Dopo la scoperta, l’autore riporta il lettore al passato, e glielo farà vivere insieme ai suoi protagonisti. Anacronie come se piovesse, e il risultato è incantevole. Se lo trovate, ve lo consiglio.
Una domanda: è analessi quella dei capitoli successivi o prolessi quella dell’inizio?
L’importante per te è sapere come incuriosire il lettore e tenerlo incollato al tuo romanzo. Quale sia il nome delle forme che scegli per farlo ha importanza relativa. Esistono varie tipologie di analessi, per esempio, esterna, interna e mista, ma non ti interessa distinguerle perché non devi sostenere un esame. Devi afferrare il lettore, avere gli strumenti per farlo e saperli usare. Questo è ciò che conta.

02. Scuola o talento? Due scuole di pensiero

Stephen King sostiene che esistano quattro tipi di scrittori: quelli cattivi, i competenti, i bravi e i Grandi, artefici di capolavori. Se per i primi non c’è speranza, devono cambiare ambizioni, gli scrittori competenti possono diventare bravi. Quanto ai Grandi, be’, lì è questione di talento. Arthur Rimbaud a sedici anni scriveva poesie immortali.

Di norma la scrittura è vista come qualcosa che tutti possono fare. Bene o male, tutti sono andati a scuola, tutti hanno un computer, tutti hanno una storia. Il che è in parte vero, ma c’è differenza tra scrivere e scrivere in maniera professionale. Perciò, o sei un dragone del deserto, e di certo non stai qui a leggere i miei consigli, oppure bisogna darsi da fare.

Ci sono scuole, ma non è indispensabile frequentarle per finire un giorno a pubblicare. Il loro pregio è che insegnano le regole della narrazione (narratologia è proprio la scienza che si occupa di studiare come le storie vengono narrate) che è importante conoscere per scrivere in maniera dignitosa. Si può ottenere la stessa cosa leggendo. Leggendo tanto. Scrivendo di più. Dopo anni qualcosa la imparerai di certo. Ma imparare le regole e ricevere consigli può largamente ridurre i tempi. Perciò bando alle ciance, il viaggio continua!

01. E così vuoi pubblicare un libro?

So bene come sia frustrante cercare di introdursi nell’ambito editoriale come autori, e quante siano le delusioni e l’amarezza che questo viaggio riserva, almeno all’inizio. Molte le insidie, numerosi i pericoli, ma il più grande è perdere le speranze e la voglia di combattere.
Se sei arrivato fin qui vuol dire che hai ancora voglia di metterti in gioco, per questo voglio condividere con te alcuni piccoli segreti imparati sul campo.

Non ho la pretesa di condurti alla pubblicazione nel giro di un paio di giorni, ma sono sicuro che questa raccolta di pensieri e di consigli ti verrà utile in futuro. A me, quando ho iniziato questo viaggio chimerico, qualche dritta avrebbe aiutato. Le stesse cose potresti impararle sbattendoci prima decine di volte la faccia, ma è più comodo se qualcuno l’ha già fatto per te.
Cercherò di aggiornare con una certa frequenza, e spero di esserti utile. Intanto buona scrittura e a presto!
Franz

00. Benvenuto a bordo, che il viaggio abbia inizio!

Ci hai mai pensato? A che cosa serve la scrittura narrativa?
Se entro tre secondi non hai risposto vuol dire che chiaro in mente non ce l’hai neanche tu. E tu vuoi scrivere, giusto? Ottimo. Allora iniziamo con il rispondere a questa domanda.

Possiamo sintetizzare così: la narrativa è raccontare storie, esporre fatti; reali o meno, poco importa. Ma la scrittura narrativa ha una funzione specifica. Vendere libri.
No, scherzo, anche se il fine ultimo è quello, inutile nascondercelo.
E per ottenere questo risultato devi fare appassionare il lettore alle tue storie, al tuo modo di esporle. Quindi se di narrare sono capaci tutti, agli scrittori si chiede un’altra cosa: di narrare bene. Come si fa? Siamo qui per impararlo.

In questa sezione troverai una raccolta per migliorare la tua scrittura che, in anni di esperienza professionale, mi è capitato spesso di dare agli autori in formazione che si sono rivolti a me. Troverai anche articoli su come passare dalla scrittura di un testo alla pubblicazione, e consigli anche in questo senso.
Bene, ho detto tutto. Siamo pronti per iniziare il viaggio. Benvenuto a bordo!
Inizia il viaggio qui.