“I superflui”, di Dante Arfelli | Recensione

Prosegue il mio viaggio alla (ri)scoperta di nomi e titoli dimenticati o a cui non è stato tributato il giusto valore. Dante Arfelli è l’autore del romanzo I superflui (Rizzoli, 1949) e nonostante abbia vinto il Premio Venezia (precursore dell’attuale Campiello) e venduto quasi un milione di copie negli Stati Uniti, oggi in Italia è pressoché sconosciuto.
Ha pubblicato poco, Arfelli, un paio di romanzi, una raccolta di racconti e un’altra di riflessioni, postuma. Aveva 28 anni quando ha pubblicato I superflui, e il Premio Venezia, del valore di mezzo milione di lire, gli era valso la fama mondiale e con essa un’iniezione di fiducia in se stesso e nelle sue competenze autoriali, proiettandolo spedito verso il secondo romanzo: La quinta generazione (Rizzoli, 1951). Poi una profonda depressione s’è impadronita di lui e lo ha accompagnato negli anni, portandolo a smettere di scrivere e a riprendere solo alla fine della sua esistenza, presso la residenza per anziani dove avrebbe terminato i suoi giorni. 
Doverosa premessa per un autore che in Italia, come detto, si conosce e apprezza (troppo) poco. 

I superflui è un romanzo crudo e umano, nessuno spazio a poesia o immagini edulcorate. Solo la realtà. Uno spaccato della società nell’immediato dopoguerra, in cui i giovani dovevano arrabattarsi tra le macerie del conflitto alla ricerca di un futuro. 

Protagonista è Luca, un giovane provinciale che arriva a Roma tentato dalle possibilità lavorative della città. Appena giunto alla stazione, è avvicinato da Lidia, una prostituta che si rivelerà prima Mentore del suo viaggio nella società cittadina. Oltre al proprio letto, la ragazza gli offre la propria casa, che affitta da una scontrosa e anziana vedova. 

Luca ha portato con sé un paio di lettere di raccomandazione con cui cerca di incontrare il favore di persone influenti in città in grado di offrirgli un lavoro, ma i risultati sono scarsi. Tramite l’intercessione dell’amico Alberto, cerca di costruirsi una rete di conoscenze che gli permetta di introdursi nell’esclusiva società dei benestanti, ma anche qui si assiste al perpetuarsi dell’idiosincrasia tra i ceti: i riccastri figli di riccastri, giovani vitelloni che frequentano le importanti università e arrivano alla laurea senza alcuna preoccupazione, e i meno abbienti che, come Luca, si arrabattano alla strenua ricerca di un impiego qualsiasi che permetta loro il minimo sostentamento. 

La figura di Lidia assume gradualmente sempre più importanza nel corso del libro. Da relazione di due sconosciuti che si incontrano e passano una notte insieme – una per lavoro, l’altro per trovare accoglienza in una città sconosciuta –, la loro diventa qualcosa di più serio, un’amicizia, un cercarsi, un affidarsi l’uno all’altra, ma mai fino in fondo. Mai dichiarandolo apertamente. Perché lei è una prostituta e quest’onta di disonore la accompagna come un vestito marcescente.

Alberto, giovane rampollo di una famiglia agiata che mai ha conosciuto la povertà e che frequenta con nonchalance i migliori salotti della capitale, tratta Lidia alla stregua di una bambola da poco, che può insultare, denigrare, umiliare a proprio piacimento poiché indegna di alcuna considerazione né rispetto. Le fa scherzi pesanti, la tocca davanti a tutti, senza curarsi della sua dignità, senza considerarla una donna. Ai suoi occhi è solo una prostituta. Qualcosa di superfluo.

Lo stesso Luca cerca di frenare qualsiasi sentimento per lei pensandola come una prostituta e, in quanto tale, non una vera donna, non qualcuno con cui costruire un futuro – senza mai del tutto comprendere o accettare che la sua posizione all’interno della società è simile a quella di lei. Un superfluo, anche lui.

E questa poi non era una donna, era una prostituta, una cosa diversa. 

Ragazza che rivelerà un animo generoso, ai limiti dell’amore umano. Figura pura, lieve, generosa, eppure bistrattata dai ceti sociali più alti. Che appaiono superficiali, mai in grado di concedersi un gesto sincero, spontaneo e caritatevole nei confronti di chi sta peggio. Solo offese e umilianti provocazioni.

Arfelli ritrae con sguardo lucido e inclemente un periodo, quello del dopoguerra, che può essere traslato in ogni epoca storica, con i giovani benestanti che tranquilli raggiungono traguardi inarrivabili per il ceto di Luca, inneggiando con noncuranza: “Da domani saremo nuovi disoccupati!”

Un romanzo moderno, toccante e disperato, che per temi, circostanze sociali e personaggi mi ha ricordato La bella estate di Cesare Pavese e, per il cinismo di fondo del romanzo, il distacco e l’apatia del protagonista rispetto ai fatti della vita, Lo straniero di Albert Camus.

Arfelli è un autore che non spiega le cose, le fa percepire al lettore per insinuazione. E anche in questo senso, la sua prosa è molto moderna.

Pensò ancora: lui viveva e agiva e parlava e aveva gli occhi per vedere le case, gli alberi, i giorni, un gatto, tutto ciò che esisteva fuori di lui e formava il mondo nel quale gli uomini si muovevano, il mondo che era dentro la sua testa, perché senza questa tutte quelle cose non ci sarebbero state più. Dentro quel ventre c’erano ormai una testa con i fiori, gli alberi, il cielo, il gatto; solo che colui che vi si stava formando non ne aveva coscienza, non le vedeva ancora. Era una cosa ben terribile il ventre della donna e il suo scopo, solamente ora Luca lo vedeva chiaro, non era il divertimento, ma la vita.

Un particolare interessante è che la sessualità, pur presente nel romanzo, non è mai trattata come qualcosa di gioioso o liberatorio, ma sempre con un imbarazzato disagio da parte di Luca. “Tormentato”, “angosciato”, sono gli aggettivi che Arfelli associa al momento di incontro dei sensi. Una sorta di ansia da prestazione che aleggia, che impedisce a Luca di lasciarsi andare e che esprime il senso di precarietà esistenziale, la paura di legarsi a qualcuno e il senso di colpa di concedersi qualcosa subito dopo aver sofferto i dolori le privazioni, la fame della guerra. Fame che Luca vede sempre come una possibilità, nemmeno troppo remota, all’orizzonte, e con cui tutto il ceto sociale di cui fa parte deve fare i conti, ogni giorno.

Una durezza affascinante, una prosa raffinata, di rara sensibilità. 
E un encomio alla casa editrice romana Reader for blind, che ha riportato in libreria I superflui e La quinta generazioneristampandoli dopo più di settant’anni dalla prima pubblicazione.

“Casino totale”, di Jean-Claude Izzo | Mini recensione

Un noir a tinte fosche nella Marsiglia sfiancata dalla delinquenza, dall’immigrazione massiva senza integrazione. Un poliziotto in crisi cerca giustizia per una ragazza stuprata e uccisa e, a mano a mano che ricompone la pista sulle orme dei colpevoli, incappa negli episodi della propria vita, e con essi – mai risolti – si trova a dovere rifare i conti. 
Una storia che si contorce, si ramifica, si ritorce su se stessa fino a diventare quel “casino” citato nel titolo. Un casino difficile da seguire, ma incantevole da leggere. 
Lo stile linguistico di Izzo è unico, la sua voce talmente unica che è in grado di influenzare chi, dopo averne letto uno suo, volesse scrivere un libro a sua volta. I periodi paratattici creano ritmi martellanti con frasi così scabre e asciutte da togliere il fiato.

Jean-Claude Izzo

E poi la ricerca dell’anima, nella radice profonda dell’umano inteso come essenza, come urgenza alla vita, la necessità di vivere, di esistere, giù negli abissi.
Izzo affonda in tutto questo senza la paura di sporcarsi le mani. Con lei, Marsiglia, sempre incombente all’orizzonte nella sua versione più cupa, ma ugualmente materna.

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma atipico dove l’eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere.

“Un uomo”, di Oriana Fallaci | Recensione

Terminati i funerali del prologo, il romanzo compie un grande balzo indietro nel tempo e si apre con il tentativo di assassinio del tiranno greco Geōrgios Papadopulos, il 13 agosto 1968, da parte di colui che sarà protagonista assoluto, fin dal titolo, del libro: il politico rivoluzionario Alekos Panagulis.

Un uomo” è un romanzo è impostato come una sorta di lettera post mortem da parte dell’autrice Oriana Fallaci (sua compagna di vita per tre anni) che si rivolge a lui come se fosse vivo, in seconda persona. Questo libro è il tentativo di mantenere la promessa che lui le aveva strappato ancora in vita: raccontarne le gesta, la verità e le virtù, dopo la sua morte. 

Panagulis, personaggio parecchio scomodo per i tiranni che si sono succeduti sugli scranni del potere greco nel periodo dei Colonnelli (e anche nel successivo), è stato catturato dai greci di Papadopulos, incarcerato e torturato per anni, rinchiuso a Boiati in una “tomba” come la chiamavano i suoi carcerieri, il loculo strettissimo in cui era imprigionato. La prima parte del libro racconta questo periodo di segregazione: le sevizie, i trasferimenti, le torture, le privazioni. I suoi capricci, le sue testardaggini, le sue provocazioni. I suoi vani tentativi di fuga.

Quando Panagulis, con un’amnistia, esce dal carcere, l’autrice entra in scena in prima persona. Risale infatti a quei giorni il loro primo incontro. Nasce il loro rapporto, relazione malsana, il loro tossico stare insieme.
Il racconto di “un uomo” visto dagli occhi della sua compagna.

La narrazione inizialmente è di tipo giornalistico, risentendo della professione di inviata “alla guerra”, come le piace ripetere. Quindi piuttosto asciutta, cruda, riporta la notizia scevra di abbellimenti o trovate drammatiche. Poi però a fasi alterne entrano inserti che parlano di intimità, del sé, della percezione che il suo essere trasmetteva all’autrice. Qui il linguaggio si concede un registro più alto, meno materico, e la prosa prende il sopravvento sulla trama, sui fatti storici narrati.

Pur ritratto attraverso le lenti dell’infatuazione, della stima dell’autrice nei suoi confronti, il personaggio tratteggiato è un uomo tutt’altro che affascinante. È saccente, irritante, pieno di sé, molto spesso arrogante, violento e fin misogino. La sua vita, le sue trovate, i suoi eccessi e lei, Fallaci, accanto a lui, sempre e comunque, come – ed è lei a trovare questa definizione di se stessa – il suo Sancho Panza. 

Lei, viceversa, ne esce come succube, schiacciata dalla sua personalità che molti definirebbero “forte”, quando invece rappresenta l’archetipo della persona insicura: narcisista, sempre al centro e sempre a caccia dell’approvazione. 
Persino Fallaci lo descrive a un certo punto, quando lentamente inizia a rinsavire circa le sue pulsioni verso di lui, come un fallito più che un eroe, con l’elenco di tutti i suoi fallimenti, sottolineando come nella vita di quest’uomo ogni azione non sia mai stata portata a compimento.

Insomma, qualsiasi cosa tu avessi intrapreso ti sei ritrovato con un pugno di sabbia in mano e tutto era andato male, tutto, come dinamitardo e come cospiratore, come tribuno e come pensatore, come politico e come leader. Anche come leader visto che ad ascoltarti erano sempre stati pochi gregari soggiogati dal tuo fascino non attratti dal tuo messaggio, che un po’ di gente ti aveva seguito il pomeriggio del corteo e basta, sulla scia di un gesto non capito. Mai un discepolo, un vero complice al quale appoggiarti. L’unico interlocutore che ti era stato accanto nel deserto di quegli anni ero io, che però basavo il legame sugli equivoci fondamentali dell’amore. 

La parte forse più interessante e autentica del libro è quando lei, durante la sua fuga di diciassette giorni a New York, cerca di spiegarsi cosa l’abbia tenuta legata a lui fino a quel momento, perché sia rimasta invece di scappare visti i suoi tradimenti, “le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebrezze, le sue durezze di roccia, le sue chiusure da ostrica”, e le sue violenze.
Si dà come risposta l’amore. Un amore senza la fase dell’innamoramento.

Ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno.  Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le tue braccia troppo corte, le tue mani troppo tozze, le tue unghie strappate. E certo l’amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo l’abbracciavo forte come quando abitavamo la casa nel bosco d’inverno e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così.

La scrittura è lineare, chiara, a volte placida nel suo incedere, a volte brutale, a volte ammantata da riflessi aulici ai quali l’autrice non lascia mai prendere il sopravvento. 

Come un uragano che s’annuncia con l’illividirsi del cielo, un mugghiare soffocato del vento che dopo un lungo covare s’abbatte sull’immobilità delle cose allagando, schiantando rami, sradicando alberi, scoperchiando tetti, così ti preparavi a scatenarti: condensare i tuoi mille volti in un volto solo.

Analizzando lo stile, è interessante notare l’utilizzo della reiterazione, figura retorica che mira a fissare i concetti e a rinforzare la relazione con il lettore tenendone alta l’attenzione. L’autrice tende a usare un’immagine forte, che spicca nel periodo, per poi allargare il concetto espresso e riprenderlo con la stessa immagine utilizzata poco prima. Nel seguente brano, Fallaci parla di un momento estremamente animato: un duello tra automobili. Sottolinea come nonostante la situazione sia ai limiti della nevrosi e lei faccia di tutto per porre Alekos davanti all’evidenza del pericolo imminente, lui, sordo alle sue proteste, si ostini a pigiare sull’acceleratore, continuando di fatto la sfida fino a esacerbarla. 

La reiterazione, qui, ha la funzione di rafforzare il concetto e aumentare il coinvolgimento del lettore. Una breve e immediata descrizione di Alekos pallido e teso, le mani strette al volante e l’acceleratore pigiato, seguita da un flusso di coscienza inarrestabile – in cui l’autrice omette la punteggiatura per rafforzare il senso di agitazione – in un crescendo che, invece di trovare sbocco in un climax, si arresta con la ripetizione della descrizione, identica a prima, accostando l’immagine fissa di lui al tripudio di sensazioni di lei. La seconda descrizione, per il contrasto con il fiume di emozioni che lo precede, diventa ancora più potente. 

E tu lo sapevi. Però non cedevi. Il volto pallido, teso, le mani strette al volante pigiavi sull’acceleratore, di più, sempre di più, sbandando, sterzando, slittando, mentre io ti supplicavo lasciali andare per carità, ci ammazzeremo, non vedi che si fanno beffe di te, potrebbero fuggire in qualsiasi momento, non fuggono per tenerci a bada e condurci chissà dove, non puoi raggiungerli e se li raggiungi è peggio, loro sono quattro e noi siamo due, loro sono sicuramente armati e noi no, se non ci ammazziamo finendo fuori strada ci ammazzano loro e morire così è una stoltezza, perché vuoi fare morire anche me, non hai il diritto di sacrificare anche gli altri insieme a te stesso, non è giusto non è civile. E terrorizzata, indignata, ti ingiuriavo, ti maledivo, ti supplicavo. Ma tu, il volto pallido, teso, le mani strette al volante continuavi a pigiare sull’acceleratore, a sbandare, sterzare, slittare e non mi degnavi d’una risposta, d’un monosillabo, d’un gesto.

È un tributo a un uomo speciale, un registro delle sue vicissitudini perché non vadano dimenticate. Eppure non è solo questo. È un romanzo, a tutti gli effetti. C’è uno stile autoriale definito, ci sono (e visibili) le tecniche e gli espedienti per tenere alta la tensione narrativa; per questo motivo è possibile spingerci anche a fare un appunto sul versante narratologico
A mio avviso, il romanzo tarda a raggiungere il finale. 
Dal momento in cui Alekos torna in Grecia per l’ultimo mese di vita (l’intera parte sesta), il lettore sa già “come andrà a finire”. È tutto già svelato. È storia. Non c’è nemmeno più lei, rimasta in Italia, a fargli da contrappunto: non c’è più conflitto. Alekos va da solo, indisturbato, avanti verso la propria fine (e il lettore lo sa perché già anticipato nel testo) e per questo – come racconto – risulta meno interessante. 

Un libro ponderoso, complesso e ricco, scritto con una prosa raffinata e solida, che alterna momenti di cronaca, di denuncia, ad altri introspettivi e autentici, di profonda coscienza di sé.

“Piccole indecenze”, di Andrea Pellegrini | Recensione

Giosuè Greco è il vetturino del Conte Arese, il quale, parecchio geloso e preoccupato delle frequentazioni della moglie, lo incarica di tenerla d’occhio, soprattutto in sua assenza. Tra il puzzo nebbioso delle stalle e i dipinti preziosi alle pareti dei palazzi, Giosuè porta con sé il lettore in un viaggio nella Milano a cavallo tra Sette e Ottocento, popolata da contesse, poeti, briganti, servitori e cicisbei. Il compito del servitore è monitorare i movimenti della Contessa, annotarli e riportarli al Conte. 

Due espedienti caratterizzano il romanzo di Andrea Pellegrini Piccole indecenze, uscito all’inizio di quest’anno per Castelvecchi Editore. Innanzitutto il genere: la bio-fiction. 
Tratteggiare il ritratto di un personaggio storico realmente vissuto attraverso la lente della fiction, dell’invenzione narrativa. La storia romanzata, si sarebbe detto tempo fa. 
La seconda idea che scompiglia le carte in tavola è il punto di vista. Non è solo una narrazione in terza persona. È un diario. Il diario di un uomo semplice, senza grandi ambizioni, che per compiacere il suo signore si ritrova a penetrare e a descrivere un mondo empio, gonfio di sotterfugi e tradimenti, in una città, la Milano napoleonica, abituata alle scappatelle e alle tresche, ma pronta a sconvolgersi se queste vengono alla luce. “Nella Milano del tempo” riporta la quarta di copertina, “è lecito collezionare concubini ma non indecenze”. La mondana borghesia dell’epoca osservata dall’occhio acquiescente e vigile dello staffiere Giosuè.

Il romanzo è il suo diario, la raccolta dei suoi appunti. Milano, 25 luglio 1801 è la prima data annotata sul suo primo quaderno (sono quattro in tutto a comporre la struttura) e l’amante della Contessa è il letterato Ugo Foscolo, che si strugge per la Contessa di quell’amore romantico e universalmente noto, intessuto di passione ed eccessi, di struggimenti e abbandoni, in questo caso anche ammantato dall’ombra della pena che il poeta nutre per la condizione umana. 

Elegante e pacata è la scrittura di Andrea Pellegrini, già autore di diversi saggi e di un romanzo su Vincenzo Cardarelli, Lettera dalla Norvegia (Fara, 2006), vincitore del Premio Pontiggia. E se di poeti si vuol parlare, vale la pena sottolineare come anche la prosa di Pellegrini sia vicina alla poesia, per musicalità, ricercatezza del vocabolo, attenzione al particolare evocativo, costruzione sintattica e metrica. 

È stato alla taverna, a consigliarmelo, il servo.

Si noti la figura sintattica dell’anastrofe, tipica della poesia. Come costruzione, il componimento poetico più semplice da accostare per somiglianza è Soldati di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma anche il sonetto Alla sera, dello stesso Ugo Foscolo: “Forse perché della fatal quïete / tu sei l’immago a me sí cara vieni (…)”. 

Oppure quest’altra frase:

E mentre annoto queste ultime fa caldissimo. Una foglia non si muove nemmeno ora ch’è notte.

Ricorda lo sguardo notturno, malinconico e delicato di Cesare Pavese, autore che risuona nel romanzo anche altrove. Per esempio in alcuni luoghi che il protagonista sfiora, le Langhe, o forse anche nel nome della giovane amante di Giosuè, Teresa (come la Teresa Motta che fu collaboratrice e per un breve periodo amante di Pavese). Questo movimento dolce e sospeso accompagna l’intera narrazione, tramutato nella tensione (prettamente sensuale) di Giosuè verso la sua Teresina.

Quella della bio-ficiton è giocoforza una narrativa vicina alla saggistica, per contenuti e ricerche pregresse dell’autore su tempo, eventi e personaggi storici narrati, e in questi casi il rischio è, per un autore non abbastanza rodato e consapevole, quello di perdere la via della narrazione, infarcendola di nozioni fini a se stesse, non giustificate dall’intreccio o dalla trama, sbrodolamenti nozionistici che procurano sfilacciamenti della tensione narrativa. Andrea Pellegrini, però, docente di letteratura che già in passato si è cimentato con successo in un’analoga impresa, affronta la sfida e la supera con maestria, componendo un racconto efficace e godibile. 
Gli inserti storici sono posti con cognizione e si apprezzano per la loro genuina tempestività, riempiono il racconto e lo rendono ancora più vivo, più autentico. È Giosuè che parla, lo si sente: il narratore. Non l’autore.

Per evitare rovesci, la prima nomina dei membri del governo è stata francese, a dire il vero. Al potere sono saliti i signori soliti, come il mio Conte Arese, ecc. Ma presto a governare sarà il popolo, noi, o almeno è quello che hanno promesso. E nei borghi come questo, nei paesi lontani dei teatri e dalla politica com’è Bergamo, il sacro fuoco della libertà si riesce ad annusare anche da una finestra socchiusa.

Lo stile ha un profumo retrò, attento alla parola, alla metrica e alla musicalità. La frase costruita con attenzione orafa, il periodo arioso, ritmato e cadenzato, volutamente più articolato e complesso della paratattica e immediata prosa moderna, sia per favorire l’immersione del lettore nel periodo storico narrato sia per un evidente amore dell’autore per la letteratura, per la parola e per i preziosi intarsi che la stessa è in grado generare.
Un libro che consiglio, e che per completezza e maturità fa riflettere su come vengano assegnati i premi letterari di prestigio in Italia. 

Donne nel Medioevo: al via la seconda edizione della Festa del libro medievale di Saluzzo, ecco le proposte di quest’anno 

Al via la seconda edizione della Festa del libro medievale e antico di Saluzzo, dal 21 al 23 ottobre. Ecco le proposte di quest’anno. 

È dedicata alle donne nel Medioevo la seconda edizione della Festa del libro medievale e antico di Salluzzo (Cn), manifestazione libraria e fieristica nata nel 2021 per raccontare e approfondire la cultura e storia medioevale attraverso romanzi e saggi, e i più svariati eventi tematici: lezioni magistrali, spettacoli, performance, concerti, momenti conviviali e cene a lume di candela e molto altro.

Dedicata alle donne nel Medioevo, per cercare di esplorare tutto ciò che ha caratterizzato la figura femminile in questo periodo storico, e per omaggiare Chiara Frugoni, Frugoni, una delle più note e apprezzate medievaliste, non solo in Italia, scomparsa ad aprile.

Il programma sarà presentato in occasione di Portici di Carta del Salone Internazionale del Libro di Torino sabato 8 ottobre, intanto ecco alcune anticipazioni.

Sarà presente Marcello Simoni, scrittore e archeologo, autore bestseller di thriller storici ambientati nel Medioevo, con l’ultimo libro Il castello dei falchi neri (Newton Compton). David Riondino e Dario Vergassola andranno in scena al Cinema Teatro Magda Olivero con lo spettacolo Raffaello, la Fornarina, il Cinquecento e altre storie, per raccontare gli stili di vita e gli amori di donne e uomini nelle corti, nelle città e nelle campagne italiane, tra la fine del Medioevo e i primi anni del Cinquecento. Il ricordo in memoria di Chiara Frugoni si concentrerà sul suo libro postumo A letto nel Medioevo. Come e con chi (Il Mulino), viaggio nelle camere da letto medievali, luoghi non solo di riposo, di incontro, di lavoro e di svago, ma anche rappresentativi dello status sociale dei proprietari. Ospite affezionato, ritornerà Franco Cardini, storico e saggista specializzato nello studio del Medioevo, con una lectio magistralis nella serata conclusiva, mercoledì 26 ottobre.

Sabato e domenica, al programma si affiancherà una parte espositiva, qui il pubblico sarà accolto da editori, librerie antiquarie, enti cultuali con le loro proposte di catalogo, le novità sul tema e la presenza di copie di libri esclusivi, sia manoscritti che a stampa. 

Tra le curiosità e le novità della seconda edizione: le cene medievali, le rappresentazioni dei mestieri, i concerti, l’iniziativa Facciate parlanti (itinerari alla scoperta degli affreschi nei palazzi del centro storico), performance di mangiafuoco, acrobati e lo spettacolo di falconeria che vedrà in volo, tra gli altri, l’aquila reale e il falco sacro.

Per info: salonelibro.it

In uscita: “L’età della rovina”, il 16 settembre per Il ramo e la foglia edizioni

Il 16 settembre 2022, per Il ramo e la foglia edizioni, esce il romanzo “L’età della rovina”, esordio letterario di Francesco Tronci.
Un libro che per tematiche risulta in linea con il periodo che stiamo vivendo, fatto di incertezze sociali e di scelte individuali e collettive.

Dalla quarta di copertina:

Le mancanze le ho chiamate attese, le speranze le ho chiamate possibilità. Ho falsato la mia lingua, non è bastato. Tanto valeva rivelarmi subito: pensassero i figli futuri alla loro felicità, non c’è futuro per me che conti quanto un presente da vendicare. È la vendetta la mia unica strada per il futuro, non posso che desiderare di vendicare un presente tanto indecente.

Legalità, responsabilità, rinnovamento, sono i dogmi folgoranti della nuova epoca: l’età della rovina. In un contorto e ossessivo susseguirsi di dibattiti, proteste e slogan di propaganda il Partito del progresso e il Partito della sicurezza si contendono il primato politico per porre fine alla sofferta crisi economica e garantire ai cittadini libertà, ricchezza e un avvenire fecondo. Si abbandonino, allora, le vecchie parole e si diffonda una lingua nuova che parli a ogni individuo di opportunità e di capacità e, soprattutto, lo recluti alle continue riforme, vero leitmotiv dell’azione politica.
Inebriati dalle promesse illusorie dei rispettivi schieramenti, i cittadini si sentono artefici di una poderosa rivoluzione che, guidata dalla bussola dei valori irrinunciabili, si farà carico anche del peso degli ultimi della nazione. Ma sono proprio gli ultimi a svelare il volto autentico dell’età della rovina: un palcoscenico di menzogneri e millantatori di benessere, una lotta pirotecnica all’ultima stoccata televisiva.
In fondo, i due partiti avversari si nutrono dello stesso nettare: la speranza sospesa e la rabbia che scaturisce dalla disillusione. È questa l’amara consapevolezza dell’aspirante, una di quelle voci che nessuno ascolta perché le sue parole sono ormai pezzi di una lingua sconosciuta. Così, in bilico tra rancore e frustrazione, tra desiderio di trovare un posto nel mondo e impossibilità di farcela con le proprie forze, l’aspirante e la sua famiglia si rassegnano alla condizione perenne di non poter permettersi un affitto, un lavoro, un patrimonio. Loro sono i senzacasa, i rei, gli sbagliati, oppressi e dimenticati da chi insegue la chimera di una lucente modernità. Per loro non c’è progresso, ma solo perdita, miseria e vergogna.
“L’età della rovina” offre il credo di una realtà livellata con parole seducenti. Per chi non crede è meglio rimanere in silenzio. Così è, così sarà.

“Primavera di bellezza”, di Beppe Fenoglio | Recensione

Per rimanere in tema di seconda guerra mondiale, 8 settembre e anniversari (quest’anno ricorre il centenario dalla morte di Beppe Fenoglio) mi piace ricordare il suo libro: “Primavera di bellezza”. È il terzo e ultimo libro che ha pubblicato in vita (gli altri sono usciti postumi) e parla appunto dell’8 settembre, di cosa ha significato l’armistizioper l’Italia.

Il libro si divide idealmente in due parti. La prima in cui il protagonista Johnny (sì, lo stesso partigiano Johnny del libro più conosciuto di Fenoglio) e i suoi commilitoni, allievi ufficiali, vivono la naja e i giorni di addestramento con noia, con la voglia imbracciare le armi ed entrare in azione. In una dimensione sospesa che ricorda le attese del “Deserto dei tartari”, o di “Aspettando Godot”.
Poi però arriva l’8 settembre 1943, l’armistizio, e le pedine sullo scacchiere della seconda guerra mondiale si mischiano, si confondono i ruoli. Prende forma il caos. Nessuno sa più da che parte stare, come operare, l’esercito italiano è allo sbando.
È adesso che Johnny, per un riscatto sociale, decide di diventare partigiano.

La scrittura di Fenoglio è unica e modernissima. Non semplice, ancora meno in questo scritto, piena di aggettivazioni, termini inusuali e invenzioni linguistiche che rendono la prosa carica, pregna.
Forse non è il miglior esempio della sua scrittura, ma certo è un gran libro, utile a capire cosa ha significato per il Paese l’armistizio che ha segnato di fatto la seconda fase del conflitto e lo smembramento dell’esercito italiano.

“Il dolore”, di Marguerite Duras | Recensione

Il senso dell’attesa. L’ossessione della mancanza. L’atrocità perversa della tortura. Questi alcuni dei temi della spietata raccolta di racconti “Il dolore” di Marguerite Duras, tematiche legate a un unico stato di cose, un momento sospeso, diabolico e terribilmente oscuro: la guerra. In cui la ragione è soppiantata dall’istinto di sopravvivenza e prevaricazione. 

L’autrice, che attraverso i racconti rivive momenti autobiografici, non chiude gli occhi percorrendo questa strada drammatica, lastricata dalle aberrazioni e le malvagità che durante una guerra appaiono legittimate, ma anzi le misura, le ritrae con descrizioni corporee, vivide, pulsanti. Azioni che gli attori di questo immenso dramma compiono come indispensabili, pur riconoscendone (e nemmeno sempre) l’atrocità. Un punto di vista diverso da quelli a cui siamo abituati. Noi. Quelli della vita quotidiana, del caffè al bar prima dell’ufficio con i tovagliolini di carta e le piante curate. 

La scrittura è nervosa, concitata, contratta. Affascinante. Pronta a scavalcare il confine della razionalità invadendo il sentiero scivoloso delle congetture, delle riflessioni, senza mai staccarsi dalla realtà per quanto crudele essa sia. Riflessioni ancorate alla realtà, fatte di immagini, di sensazioni che avvinghiano il lettore coraggioso e non lo mollano. Lo stritolano. 

Coraggioso, sì, perché per leggerlo, “Il dolore”, ci vuole coraggio. La domanda prima di leggerlo potrebbe essere: “Sei disposto a farti coinvolgere fino a questo punto negli orrori di una guerra?” 
Bisognerebbe sforzarsi di fare il salto. 

La guerra è un periodo di oscurità, di perdita di valori e di umanità, e ne siamo spesso troppo distanti emotivamente, troppo poco ne intendiamo la gravità. Vediamo le foto, gli orrori sul campo che la guerra lascia dietro di sé. Ma poco sentiamo, pochissimo, del durante. Qui, in questo testo, questo durante lo viviamo, ci brucia sulla pelle. Con impotenza assistiamo all’oscurità umana, al rigoglio del male a cui l’uomo cerca di trovare un senso, una giustificazione.

“Del suo potere è questo che resta, la voce per mentire. Mente ancora. Ne ha ancora la forza. Non è arrivato a non mentire più. Thérèse guarda i pugni che cadono, sente il gong dei colpi, avverte per la prima volta che nel corpo dell’uomo vi sono spessori che è quasi impossibile penetrare. Strati e strati di verità profonde, difficili da raggiungere”. 

In “Il Dolore” Marguerite Duras racconta il senso di amara sospensione che si respira durante la guerra: nazisti, resistenza francese, alleati; non importa da che parte stiano, il prodotto di una guerra è solo la pena. Superando la paura, lei che l’ha vissuta sulla pelle, ce la racconta. A fondo. Senza sconti. Ci trascina con sé.  Non ci resta che seguirla.

Consigliatissimo.

“Mandibula” di Mónica Ojeda | Mini recensione

Capacità tecnica narrativa di livello altissimo. Un racconto che tiene incollati, e porta con sé in un viaggio nel disagio esistenziale e spirituale. In alcune parti la narrazione scorre simultaneamente su tre piani narrativi, dando vita a un flusso esperienziale che il lettore percepisce come in un sogno, a sprazzi, a tessere che finiscono per costituire un mosaico definito e, per usare un termine da basso giornalismo, agghiacciante. Eppure.

Un viaggio nell’orrore bianco, nella paura della scoperta di sé di un gruppo di ragazzine adolescenti che osserva senza accettarlo fino in fondo il proprio cambiamento. Può considerarsi un romanzo di formazione, per certi versi, o deformazione. Di una società, di una generazione, di un’umanità.

Strepitoso.

La ricerca dietro lo stile del romanzo “Paesi tuoi” di Cesare Pavese

La trama è semplicissima. Berto, un meccanico torinese, conosce in carcere Talino, tipo poco raccomandabile che, una volta usciti, lo porta con sé in campagna dove suo padre possiede terre e accetta lavoranti. Qui conoscerà la sua ampia famiglia, i genitori e le sorelle. Una di queste è la selvatica Gisella, per la quale ha fin da subito un’attrazione. Talino, già autore di un’aggressione sessuale ai danni della ragazza, porrà prematuramente fine alla loro relazione uccidendo Gisella con un tridente da fieno.
Si trattano le tematiche care a Pavese: la solitudine, il ritorno alla terra natale, il confronto tra città e campagna, la campagna stessa. 

Ma ciò che colpisce maggiormente è l’uso della lingua.
Conosciamo Cesare Pavese come un illuminato, delicato intessitore di frasi che sembrano fiori. Raffinati intarsi sintattici ci accompagnano in una profonda discesa introspettiva nei personaggi, solitamente nel protagonista. 
In questa prima prova narrativa, però (Paesi tuoi è stato pubblicato nel 1941), l’autore utilizza un registro basso – è scritto in prima persona e il protagonista-narratore è poco istruito – e i personaggi sono più abbozzati che approfonditi. 
A colpire, appunto, è la maestria, l’accuratezza con cui questo registro viene costruito e reso. 

Approcciandosi all’analisi dello stile di Paesi tuoi, il nome Giovanni Verga è il primo a venire in mente. Verga è il maggior esponente del verismo, il cui stile è caratterizzato dalla tecnica della regressione. L’autore, aggirando il proprio (altissimo) grado di cultura, abbassa il registro linguistico fino a conformarlo a quello di un popolano dell’epoca, a cui affida il compito di narratore, e quindi la voce narrante. Il risultato, se il processo fosse stato elaborato in maniera meccanica, senza un brillante pensiero alla base, sarebbe un blocco dialettale incomprensibile e non fruibile. L’arte di Verga è stata usare uno stile comprensibile pur rendendo riconoscibile che a narrare fosse un popolano, non adeguando lo stile del popolano a quello aulico degli autori dell’epoca ma avvicinando il proprio a quello del volgo.
Nel suo caso il territorio descritto era la Sicilia rurale, e il siciliano il dialetto di partenza. 

L’avevano comprato alla fiera  di Buccheri ch’era ancor puledro, e appena vedeva una ciuca, andava a frugarle le poppe; per questo si buscava testate e botte da orbi sul groppone, e avevano un bel gridargli: “Arriccà!”. 

Se la prima parte della frase ricalca il ritmo, la cadenza, il gusto sintattico del dialetto, alla fine, con disinvoltura, l’autore inserisce una parola composta e grandemente significativa: Arriccà ci riporta in un istante nel luogo e nel comparto sociale trattati. Arrì è un comune incitamento alle bestie da tiro che, unitamente all’avverbio di luogo dialettale cà (qua), ci configura l’ambiente entro cui si svolge la vicenda narrata, creando per il lettore una vicinanza con l’episodio e il luogo narrati difficilmente conseguibile con ilbello stile, canone a cui la letteratura del periodo (fine Ottocento, inizi del Novecento) si adeguava fedelmente. 

Cesare Pavese

Pavese, dal canto suo, autore (involontario?) neorealista che ha come ubicazione la succitata campagna langarola, fatta sua l’esperienza verghiana, la riconduce nel suo territorio. 
Rimane perciò l’intenzione di ricalcare la sintassi sulla forma parlata della località di riferimento, le Langhe – con effetti non sempre piacevoli da leggere – ma, invece di inserire vocaboli dialettali, ne utilizza alcuni che appartengono sì alla lingua italiana ma sono tipici del territorio. Il termine “goffo”, per esempio, piemontesismo molto ricorrente nel testo, non è utilizzato per descrivere qualcuno impacciato (come in italiano), ma con un’accezione canzonatoria, denigratoria (‘zotico’, ‘poco istruito’), come avviene nel dialetto di origine. Nel brano seguente, ad esempio, si nota la costruzione sintattica aderente a quella del parlato (con le incidentali di secondo grado, i modi scorciati ed ellittici tipici dell’oralità) e le espressioni vernacolari di cui abbiamo appena parlato.

L’Adele  pareva  che  ridesse  allo  scuro,  come  fanno  le  donne  quando  mettono  su  un  uomo.  Io  la guardo staccando la sigaretta a mano riversa e mi viene in mente quando Talino rideva perché l’avevano prosciolto; e allora penso che, goffo com’era, era riuscito proprio a farmela. Mi viene la rabbia perché adesso capivo cosa aveva gridato Gisella, e  che  non  era  per  il  padre  che  mi  aveva  portato,  ma  per  farsi  guardare  la  pelle  da  me.

A questo quadro generale dello stile di Paesi tuoi, è doveroso aggiungere un ulteriore tassello imprescindibile. L’influenza americana. 
Pavese era traduttore dei più grandi autori della letteratura americana moderna (Hemingway, Steinbeck, Faulkner, ecc.) e la loro lezione è impressa in maniera marcata nello stile usato in questo romanzo. Un esempio:

Ecco: vide quella ragazza vestita di rosso. Bastardo d’uno scemo com’è, vuole toccare tutto quello che lo colpisce. Semplicemente sentire al tatto. E così tese le mani a tastare quell’abito rosso e la ragazza cacciò uno strillo, e allora Lennie fu tutto sconvolto e non lasciò la presa perché questa ragazza è la sola cosa che gli stia in mente. 
Uomini e topi, J. Stenibeck, trad. C. Pavese

C’è il luogo e ci sono i personaggi, la campagna e i braccianti al limite della legalità, e lo stile, che vuole avvicinare il lettore alle vicende narrate. Ci sono i campi, il lavoro nei campi, i problemi con l’amicizia, con la legge, con la fiducia, la solitudine interiore, la violenza sulla donna, la donna stessa, che se non al lavoro in un campo o a casa a cucinare è considerata dagli uomini una poco di buono. 

Paesi tuoi rappresenta un saggio notevole delle capacità letterarie che via via, nel corso della sua carriera, Pavese ha affinato, elaborato e reso personali, fino a raggiungere lo stile solenne e poetico che caratterizza la sua prosa. 

Francesco Montonati