Codice a sbarre – Storie di assenti e di simbionti in cattività (Il ramo e la foglia edizioni) è l’esordio letterario di Giulia Tubili, un feroce affresco della condizione umana in cattività. La dimensione coercitiva, che può essere imposta da sbarre fisiche, come in luogo di ufficio detentivo, o mentali, da cui è ancora più difficile evadere. Sbarre che sono schemi, azioni reiterate fino al raggiungimento di un risultato esiziale.
Momenti. In tredici racconti autoconclusivi e indipendenti uno dall’altro, Giulia Tubili regala spaccati di vita, attese snervanti, lentezze marmorizzate, solitudini e nostalgie, momenti di vite condotte sotto un giogo. Molti e variegati i personaggi che abitano queste storie, sempre posti ai margini della cosiddetta società civile: assassini, infanticide, amanti, ladri, puttane e accattoni, esistenze perdute e dissolute che si fanno voci per raccontarsi.
Da parte dell’autrice non c’è alcuna urgenza moralistica, nessun giudizio; solo un’abile e sensibile trascrizione dell’umana incoerenza. E per raccontarci tutto questo, Tubili distilla una scrittura fitta, impetuosa, ricca e caustica, che ora allevia il suo andamento ritraendosi materica, scalfendo tracciati neri nel bianco del foglio e gettando il lettore nel cuore del fatto, ora contorcendosi e modulandosi su intarsi a cavallo tra la poesia pura e un respiro teatrale che ricorda la misura shakespeariana; il tutto declinato in una chiave assolutamente moderna.
Lesbica assuefatta in onore di questo probabile cancro che fluttua fra le allegoriche cattedrali delle mie cervella in fermento.
Satura di invidia nei confronti della signorina itinerante che, pericolosa, si nasconde fra i miei fondenti boccoli scombinati, scribacchia arzigogoli e macchie non premeditate.
Codice a sbarre è un libro che indaga l’essere umano a partire dalle sue fragilità, dalle sue imperfezioni e, per certi versi, dai suoi fallimenti. Un universo di umanità e al contempo un’umanità universale. Quella della prigionia, appunto. Tredici storie che tratteggiano spietate un genere umano difettoso, che repelle e intenerisce a un tempo. Racconti tanto pregni che consiglio di rileggerli più volte, per assaporarli a pieno e non perderne i dettagli.
Morsi è una fiaba nera caratterizzata da uno stile narrativo leggero, delicato. Il narratore mantiene sempre una certa distanza dai fatti narrati, evitando così di esporli in maniera troppo realistica o drammatica. Una fiaba appunto, in cui due ragazzini (uno dei quali ha appena saputo della morte dei genitori), in un paese in cui gli adulti muoiono dilaniandosi e divorando le proprie stesse budella, passeggiano con un maiale al seguito, quasi allegramente, lontani dell’orrore immane che una situazione del genere incuterebbe in un contesto realistico. Come quando Teo estrae la sua Topoclic, la macchina fotografica di Topolino, e dice:
«Sta finendo il mondo e tu non vuoi fare delle foto?»
In Morsi, dunque, si assiste a un accostamento insolito. Una scrittura lieve (anche se, per i miei gusti, basata su meccanismi narrativi troppo evidenti) usata per tratteggiare episodi horror/splatter. Se questo sia un bene o un male, è un parere molto soggettivo. Alcune situazioni mostruose – alla Stephen King, per intenderci – narrate in punta di piedi, senza quello sguardo tagliente e disturbante perdono efficacia, mordente. Finisce per essere un elenco di orrori che non tocca chi legge. Forse può essere un modo per avvicinare a narrazioni horror un pubblico non abituato a leggerne.
Non lo definirei nemmeno horror. È un racconto di formazione, di amicizia. Poi ci sono, è vero, squartamenti, episodi di autocannibalismo, streghe (masche, pardon) e molto sangue. Ma il focus è sulla ragazzina, sulla sua crescita, sul rapporto con il suo amico. Questa è la scrittura su cui Marco Peano dovrebbe concentrarsi. Perché l’occasione mancata di questo romanzo (lo dico basandomi sul tipo di voce e dalla sensibilità che dimostra in questo testo l’autore), credo sia proprio lo sviluppo dei personaggi, del loro rapporto, della loro crescita.
Un altro elemento che non mi ha convinto è la lentezza della narrazione. Ritmo e movimento scorrono monotoni, incuranti dei fatti e delle accelerazioni che la narrazione dovrebbe avere nei momenti di tensione. Il racconto continua sempre lento, costante, piatto, e anche nelle occasioni più movimentate troviamo interruzioni imposte da ricordi, descrizioni, considerazioni inutili ai fini del romanzo ed eccessive didascalie nei dialoghi. Si veda ad esempio:
«Ma secondo te come mai a noi non è successo?» chiese finalmente Teo, mentre costeggiavano il campo da bocce. Lei increspò le labbra: «Tu hai paura del dentista?» «Come?» disse Teo, stringendosi nelle spalle per il freddo. «Il dentista,» accennò Sonia con un brillio obliquo negli occhi. «A me non piace per niente farmi visitare dal dottor Bruna».
Tutte queste informazioni rallentano il dialogo che, come sappiamo (e come se certamente anche Peano, in quanto editor di Einaudi), serve per velocizzare il ritmo della narrazione e a fare vivere i personaggi.
Nel complesso un libro supportato da una scrittura consapevole e delicata, piacevole anche se priva di guizzi. Un libro che non mi ha convinto fino in fondo perché troppo indeciso sul genere che propone, senza indagarne nessuno in maniera esauriente.
Mario Desiati ha studiato Giurisprudenza, è stato caporedattore della rivista Nuovi Argomenti, redattore di Mondadori e direttore editoriale di Fandango Libri. Ha scritto poesie e romanzi. Candidato dal suo ex collega Alessandro Piperno, anche lui ex redattore di Nuovi Argomenti, è il vincitore del Premio Strega 2022.
In Spatriati, la storia è semplice. Il protagonista, radicato al paese di origine Martina Franca, timido, passivo e poco incline a guardarsi dentro, aspetta tutta la vita il suo amore, che è invece una ragazza prima e donna poi attiva, dura, emancipata e spregiudicata, sempre alla ricerca di situazioni limite. Lei si trasferisce a Milano (lui rimane al paese) e poi a Berlino finché lui non la raggiunge.
Molti i temi che il romanzo sfiora e indaga: le pulsioni al limite con l’obiettivo di una rivalsa sociale e in contrasto con la visione chiusa e patriarcale della famiglia di origine, il gender fluid, la non appartenenza, la mancanza di radici e di un posto da chiamare casa.
A differenza della trama, la missione che Desiati si pone con Spatriati non è semplice. Sulla carta il punto di vista tematico non ha nulla di originale, ma questo non è necessariamente un fattore negativo, anche Romeo e Giulietta, in fondo, è una delle tante storia d’amore travagliate. Un ragazzo con problemi a definire la propria identità sessuale si scontra con la mentalità del sud – vicina ai dogmi ecclesiastici, alle cerimonie, chiusa e rivolta al centro di se stessa, per nulla incline all’apertura e alla sperimentazione – e, seguendo il suo amore Claudia, fugge verso l’apertura delle città del nord. Berlino, dove ognuno può essere quello che sente dentro. Parlare di tutto questo senza incappare nei cliché o nel già sentito è difficile.
Allora avremo un protagonista che non riesce ad accettare (e capire fino in fondo?) la propria sessualità, una ragazza confusa alla ricerca di qualsiasi esperienza purché trasgressiva ed eccessiva (che fa tanto Christiane F., se di Berlino si vuol parlare), una madre fedifraga e comprensiva, un’amica che fa della precarietà esistenziale borderline una bandiera, un modo di essere. C’è anche il neonato, alla fine, che ricorda certe ambientazioni almodovariane. Episodi già raccontati in mille salse, come il ragazzo timido e innamorato che per rivelarsi racconta all’amata “di un amico a cui piace una misteriosa ragazza…”.
Da un autore che è anche poeta ci si poteva aspettare una prosa più armoniosa, più temeraria, invece è tranquilla e, come il protagonista della storia, sembra non voler mai osare, mai prendersi un rischio. E da un Premio Strega, la scrittura è una cosa che ci si aspetta potente, sicura, solida e, quando serve, spietata.
Ma il limite più grande del romanzo è questo. L’autore cerca di raccogliere una storia attuale, tentando in qualche modo di stupire; vuole parlare di cose spinose, dissacranti, caustiche, fastidiose per il perbenismo da opinione pubblica, ma senza la forza narrativa (e il coraggio?) per farlo. Allora si trovano episodi spiazzanti, buttati in mezzo alla narrazione così, che appaiono forzati, inseriti apposta perché dovevano esserci delle parti forti.
– Sei bella quando leggi le poesie. – Sono meglio quando mi masturbo.
Questa debolezza di fondo porta il lettore a storcere la bocca leggendo scambi di questo tipo, a dire all’autore: Ma perché? Non sei Welsh, non sei Palahniuk. E non è che tu, autore, non possa esserlo a tua volta, non è che questo tipo di scambio appartenga al novero di un linguaggio riservato a loro, è che devi trovare una tua cifra. Univoca, che involi il lettore in una direzione ben definita, con un solo approccio. Lettore a cui, trovandosi davanti certe frasi o situazioni, non venga da pensare: Cosa c’entra? Perché? Cos’è, una frase buttata lì per fare la “risposta forte”? E poi? Se personaggi, dialoghi e situazioni non sono debitamente preparati a livello drammaturgico, il lettore è portato a dubitare della sincerità degli stessi e la narrazione perde forza e credibilità.
Come l’episodio in cui Claudia si leva la gonna e rimane in mutande nell’androne di casa sua. Così, senza motivo. Anzi, per sentirsi “LIBERA”, come annoterà subito dopo sul taccuino (per spiegare al lettore incredulo il perché della sua azione stonata – che invece sarebbe una trovata scenica efficace per un film). Ecco, trovate sceniche simili sembrano buttate lì di tanto in tanto per fare succedere le cose forti. Come quando il protagonista, fatalista e totalmente succube della vita, si mette a fare il duro con i delinquenti mezzo mafiosi che lo minacciano.
– Lo sai chi ci manda? – Non lo so e non mi interessa –. Giocavo a fare il duro.
Non voglio dire che il libro sia scevro di pagine di bella scrittura, evocative di immagini e sensazioni, si veda ad esempio:
Il piacere ha un colore e il nostro era il bianco, come il marmo contro il quale le premevo le ossa; era neve, latte, calce. Pensai alle pietre del mio paese, che in estate sono accecanti. La calce disinfetta i palmenti, monda i sottani e i colli dei trulli. Eravamo un unico corpo.
Apprezzo questo tipo di prosa poetica. Peccato che sia usata per descrivere momenti come quelli appena citati, in cui il lettore si chiede “ma perché?”. In questo caso, per esempio, Claudia e il protagonista Francesco stanno facendo sesso in una piscina pubblica, con tanto di ignari spettatori. Così, dal nulla, lei ha manifestato la voglia di andare a fare un bagno e, con la stessa naturalezza, di scopare.
Mi rivolse un’occhiata di sfida. – Lo faresti ora con me? – Sempre.
Spatriati è un libro che non mi ha convinto, che ho finito a forza, scettico e distante.
Sadeq Hedayat è lo scrittore iraniano riconosciuto come il padre della letteratura persiana moderna. In Italia è (poco) noto soprattutto per il suo libro La civetta cieca (Carbonio Editore), riflessioni di un pittore sulla vita e sull’esistenza, tradotto dalla iranista Anna Vanzan, traduttrice anche di questa raccolta di racconti.
Il randagio e altri racconti, (Carbonio Editore, 2021) ci porta in ambienti cupi e surreali, dai colori denaturati, che tratteggia un Iran straniante e calloso. Distante, perché i racconti sono per lo più narrati con una distanza dai fatti che strania il lettore, che dona uno spaccato di vita ma lo tiene chiuso in una teca, da visitare quante volte uno vuole, ma col divieto di toccare di entrare, di immergersi. Distanza indispensabile all’autore per trattare tematiche nefande, senza che il lettore interrompa la lettura perché intollerabile. Come nel caso del racconto sulle spose bambine.
La traduzione agile e moderna della studiosa Anna Vanzan (scomparsa di recente) ci restituisce una scrittura semplice e pulita, prosa della quale l’autore si serve per affondare nella società persiana dell’epoca e indagare le sue aberrazioni, accettate a forza dal popolo come cose normali, a cui ci si abitua, non potendo ribellarvisi. Grande il coraggio di Hedayat nel denunciarle, coraggio che gli è costato l’esilio in Francia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua breve vita. Gli oggetti inseriti nei racconti ne sono anima vitale, quasi avessero una vita propria o, con la loro presenza, rendessero più viva la scena narrata.
Il racconto che dà il titolo al libro, “Il randagio”, si stacca dal resto delle tematiche. Indaga il peregrinare umano (anche se il protagonista è un cane), quella ricerca costante di qualcosa, che rimane sempre senza soddisfazione. Oggi è un impiego, domani un partner, un padrone, un giogo. Qualsiasi cosa che ci ponga rispetto al mondo in posizione di chi subisce. E ci si abitua anche a questo, a essere bistrattati, a prendere calci.
È uscito il 24 giugno per Il ramo e la foglia edizioni Codice a sbarre – Storie di assenti e di simbionti in cattività. La silloge di racconti rappresenta l’esordio letterario di Giulia Tubili, autrice e attrice romana da sempre amante della scrittura:
«Mi fa volare. Scrivere riempie le notti, i vuoti incolmabili, le cicatrici di un’adolescenza negata. Scrivere è come cavalcare a briglie sciolte e, poi, tornare a compiere lo stesso percorso cercando il giusto passo».
Dalla quarta di copertina:
Magari non è così, forse fanno bene loro. Chi sono io per giudicare i dolori atroci che nascondono in casa? Però, al contrario loro, io non so fingere il distacco. Non sono in armonia con me stessa, né con gli eventi in corso. Eppure, da bambina, mi dicevano che ero una brava attrice.
Questa raccolta di racconti non appartiene totalmente al giallo benché esprima forti suggestioni noir, pulp e thriller. Possiamo paragonarla a un “lettore di codice a (s)barre” che cerca di decifrare, racconto per racconto, le storie incredibilmente diverse della prigionia, della cattività in cui, in un modo o nell’al- tro, ogni essere umano finisce col cadere, per un periodo o per sempre. Non si vuole condurre il lettore in un girone infernale né portarlo a ragionare Dei delitti e delle pene. Il carcere è un non luogo: cella, corpo o mente, che la catena sia corta o lunga come nel testo poetico della Szymborska, è un essere o non essere. Tante sono le sbarre uno è il senso di solitudine: ferro o ossa, ferro e ossa.
Ti sei mai chiesto cosa succede una volta che il manoscritto è stato approvato per la pubblicazione? Credi che, wow, mi pubblicano, e il lavoro sia finito? Non è così. Adesso ti spiego brevemente cosa succede dopo. Il lavoro di editing sul romanzo, di revisione dei testi a livello di contenuti, di copy editing, di line editing, di correzione di bozze. In una parola, il lavoro dell’editor.
Segnalazione potenziale opera pubblicabile Il lettore editoriale, l’agente o l’editor segnala il testo come meritevole di pubblicazione al direttore della collana, e se anche lui è d’accordo si procede iniziando dal lavoro sul testo. In cosa consiste? Immaginiamo che il testo aderisca ad alcuni standard qualitativi stabiliti dalla casa editrice, ma non sia ancora al 100% delle sue potenzialità. Occorre migliorare il manoscritto fino a renderlo a tutti gli effetti un romanzo degno di questo nome, vendibile, e capace di ritagliarsi il suo spazio in un mercato saturo e pieno di proposte.
L’editor lavora prima e dopo l’arrivo del manoscritto in casa editrice. Prima per vagliarne l’attrattiva sul mercato, poi, come abbiamo detto, per portarlo al massimo delle sue possibilità. Facciamo finta di essere alla fine degli anni Cinquanta, primi Sessanta, tra i vari Einaudi e Mondadori, nell’universo ideale di cui tutti i lavoratori del settore editoria parlano con nostalgia, un’epoca magica in cui etica e morale deontologica camminavano a braccetto lungo il boulevard del mondo del lavoro, e di lavoro ce n’era per tutti e tutti erano stimati professionisti. Partiamo da lì, idealmente. Esistono tre tipi di editing di romanzi, e in quest’epoca benedetta corrispondevano a tre ruoli diversi, rivestiti da individui differenti, ognuno specializzato nel proprio.
Editing strutturale Per strutturale intendiamo relativo al contenuto del romanzo, allo sviluppo della trama, alla costruzione dei personaggi e delle singole scene. L’editor segnala i punti deboli del romanzo e sottolinea quelli forti, può far notare la presenza di scene poco efficaci o costruite male, l’utilizzo di personaggi di cui il plot può fare a meno, può indicare se ci sono parti troppo lente o se il ritmo della narrazione è monotono, può suggerire lo sviluppo di un personaggio, del suo conflitto interno, della trama, e così via.
L’editor non decide niente, da solo, non obbliga l’autore a fare cambiamenti né scrive al posto suo (quello si chiama ghost writer, è un’altra cosa). Si limita a segnalare ciò di cui avrebbe bisogno secondo lui il romanzo. Sarà poi l’autore ad apportare – se riterrà – i cambiamenti e a mostrarli all’editor. Finita la parte dell’editing strutturale. Cosa viene adesso?
Line editing Il line editing è la revisione del testo per quanto riguarda lo stile; ci si occuperà dunque di uniformare lo stile dell’autore, di migliorare le frasi involute, di eliminare i modi di dire logori e abusati, i cliché e le ridondanze informative (il famoso infodump, considerato peccato capitale, se commesso dall’autore emergente, ma accettatissimo nelle produzioni hollywoodiane e nelle serie televisive).
Copy editing Con il copy editing l’editor si occupa di scovare, laddove ce ne siano, gli errori grammaticali, le omissioni, le ripetizioni, le cacofonie, e verifica la coerenza narrativa, la compiutezza temporale, la veridicità delle informazioni e la coerenza delle stesse all’interno del testo.
Ti ho parlato prima dell’epoca d’oro perché a quei tempi esisteva realmente una definizione di ruoli. Ora è più facile che l’editor si occupi un po’ di tutto, e debba quindi avere vari tipi di competenza per far fronte a ogni necessità. È quindi sì editor, ma può trovarsi a dover coprire il ruolo di line editor, di copy editor, di correttore di bozze, spesso anche di valutatore, di talent scout e di grafico impaginatore.
“Per una buona revisione del testo il mio consiglio è leggere tanto. Perché? Così, perché leggere è in ogni caso un buon consiglio”. (J.D. Johnson).
Come dicevo, spesso l’editor si trova anche a coprire il ruolo di talent scout. Dovrà quindi leggere i manoscritti che gli mandano ma anche cercare nuovi talenti, e gli può capitare di imbattersi in uno scritto che lo colpisce per stile, uso della lingua, o potenzialità, ma che non c’entra niente con un romanzo. Magari è un articolo di un blog, oppure un racconto in una rivista letteraria. In questo caso l’editor contatterà l’autore e gli chiederà se ha un manoscritto nel cassetto – tutti hanno un manoscritto nel cassetto – ma se la risposta fosse negativa gli toccherebbe giocarsi l’asso pigliatutto: «Ti va di scrivere un romanzo?» E il lavoro, per l’editor, si moltiplicherebbe: dovrebbe lavorare con l’autore dalla pianificazione del romanzo alla scrittura dello stesso.
In conclusione, il lavoro dell’editor è finalizzato a potenziare il testo di un autore, con la clausola inoppugnabile del rispetto nei confronti di quest’ultimo. Diffidate degli editor ingombranti: l’editor non deve sostituirsi all’autore ma aiutarlo in maniera maieutica a migliorare il suo manoscritto, lavorando in concerto con consigli e segnalazione, ma mai imponendo le proprie idee. Questa è anche la mia filosofia e il mio modo di lavorare.
Cos’è un’agenzia letteraria? Di che cosa si occupa, come funziona, serve davvero all’autore per arrivare alla pubblicazione? E quali sono le migliori in circolazione? Mettiti comodo e iniziamo.
COS’È L’AGENZIA LETTERARIA L’agenzia letteraria è il tramite tra l’autore e la casa editrice. Ma non solo. Prende in carico il tuo testo, lo valuta, lo propone alla casa giusta. Quando l’aspirante autore inizia l’iter dell’invio alle case editrici, uno degli errori che commette più di frequente è di mandarlo a caso: pesca a strascico. Ogni casa editrice ha un certo tipo di collocazione nel mercato editoriale e si occupa solo di un particolare tipo di testi. Ognuna ha poi delle collane, che in maniera ancora più specifica stabiliscono dei parametri entro cui scegliere i libri da pubblicare. Va da sé che andare a caso, nella maggior parte dei casi, non è una grande idea. Già il mondo editoriale è saturo di proposte, se in più gli autori non danno neanche un’occhiata alle pubblicazioni delle case editrici a cui stanno mandando, queste a loro volta saranno sempre meno invogliate a leggere i manoscritti di autori inediti. L’agente letterario si occuperà di proporre il tuo testo alle case editrici che, secondo il suo parere e le sue conoscenze, potrebbero essere interessate alla pubblicazione.
IL CONTRATTO DI RAPPRESENTANZA Perché l’agente si metta all’opera sul tuo romanzo, dev’esserci la stipula di un contratto con l’autore che si chiama contratto di rappresentanza. Quando firma il suo contratto, l’autore affida la rappresentanza esclusiva a un agente, potrà quindi avere un contratto di pubblicazione solo tramite l’intercessione di quest’ultimo al quale riconoscerà una percentuale variabile (di solito intorno al 10%). Questo vincolo durerà quanto stabilito nel contratto stesso.
Firmato il contratto di rappresentanza il tuo libro sarà pubblicato sicuramente? No, firmare il contratto vincola te ad aspettare che l’agente cerchi una casa editrice interessata al tuo romanzo, ma non implica necessariamente che la trovi. Il testo potrebbe non piacere, il tuo agente potrebbe avere contatti solo con piccole case editrici e… di questo parliamo dopo.
COME FUNZIONA UN’AGENZIA LETTERARIA Non tutte le agenzie sono uguali. Innanzitutto vanno distinte per potere contrattuale, conoscenze e contatti, affidabilità, autori che hanno in scuderia… Più avanti parleremo di come sceglierne una affidabile e tosta, adesso capiamo come funziona una agenzia standard, con un certo grado di affidabilità.
L’iter per l’autore L’autore ha il romanzo pronto. Manda all’agenzia. Se interessata, questa propone all’autore il contratto di rappresentanza. Firmato questo per l’autore non c’è che la poltrona e il telefono. L’agente invece manda una scheda sul manoscritto ai direttori editoriali delle case editrici che ritiene più adatte a quel tipo di proposta. Una case editrice è interessata? L’agente le manda il manoscritto. È ancora interessata? L’agente va a discutere il contratto (di pubblicazione, questa volta), lo propone all’autore e l’autore, che non aspetta altro, lo firma. E il gioco è fatto. Attenzione, Medusa vorrebbe il soggetto del tuo romanzo per farci una serie televisiva? Ecco che l’agente scatta a trattare il contratto sui diritti. Stessa cosa per i diritti di traduzione e distribuzione del romanzo all’estero. Questo se il testo è accettato dall’agenzia. Ma in caso contrario? Be’, scordati la poltrona. C’è ancora tanto lavoro per te.
LA SCHEDA Un tempo le agenzie ricevevano le proposte, le valutavano internamente e all’autore non toccava sborsare le sue sudate monete. Oggi le cose sono un po’ diverse. Le agenzie letterarie si sono dotate (nella stragrande maggioranza) di un comparto ‘servizi editoriali’. Quali sono i servizi offerti? Apri il menù di questo sito: sono gli stessi. Perché i servizi editoriali delle agenzie costano così caro? Perché si avvalgono di collaboratori esterni e devono pagarli (e guadagnarci insieme) ma anche perché l’aspirante autore vede in loro la possibilità di pubblicare (che, come abbiamo visto non è affatto scontata), ed è in generale più disposto ad affidargli i suoi risparmi. La scheda è uno di questi servizi.
Molte agenzie chiedono denaro per prendere in considerazione (leggere) il tuo manoscritto. In cambio offrono la scheda di valutazione. Se la valutazione sarà positiva la scheda sarà piuttosto breve, e verrà inviata direttamente – come detto – alle CE. In caso contrario la scheda sarà più lunga e dettagliata. Questo tipo di scheda sarà, in sintesi, l’esame del testo e ne analizzerà i vari aspetti, a partire da quelli letterari (stile, struttura, temi), fino a quelli relativi all’accoglimento dell’opera da parte del mercato editoriale. Il tutto supportato dall’elenco dei pregi e dei difetti dello scritto, e dai consigli all’autore su come intervenire per il miglioramento del testo. Il lavoro per lui sarà, a questo punto, quello di riprendere in mano lo scritto e, scheda alla mano, rielaborare tutte le parti che funzionano meno per portarlo al livello richiesto. E finito il lavoro riproporlo (pagare cioè un’altra scheda di valutazione), non necessariamente alla stessa agenzia.
Ricapitolando: Tu, autore, paghi la quota (varia di molto a seconda delle agenzie, dai 200 euro in su, fino a 800 +IVA) e mandi il tuo testo, che sarà valutato. Se non piace, l’agenzia non ti prende in carico e ti manda la scheda con tutti i consigli, eccetera. Se invece è interessata, incrocia le dita e ricordati degli amici.
COME RICONOSCERE UN’AGENZIA VALIDA
Guarda gli autori che segue. È semplice. Vai sul sito e dai un’occhiata agli autori che l’agenzia rappresenta. Se ne riconosci qualcuno la strada è quella giusta, in caso contrario prova a verificare con quale casa editrice hanno pubblicato quegli autori. Se ce n’è un buon numero che è uscito con grandi editori è un buon segno. Viceversa, se vedi che hanno una manciata di autori, sconosciuti o pubblicati da CE, se non a pagamento, piccole e mal distribuite, fermati. A quelle ci puoi arrivare da solo. L’agenzia letteraria ti serve per (sperare di) raggiungere case editrici che da solo non potresti avvicinare.
Guarda quanto chiedono. Alcune agenzie hanno dei prezzi folli (per le famose schede), in nome di un presunto potere editoriale. Ma se sono troppo alti, aspetta. Alcune si affidano solo a scout o trattano con autori già pubblicati e li mettono lì, in home page, come specchietti per le allodole. L’aspirante autore vede quei mostri sacri e pensa di avere qualche possibilità, e ciao ciao ai sudati risparmi. Per cosa? Per una scheda che potrebbe avere da chiunque altro.
Diffida delle agenzie di rappresentanza chi ti chiedono di editartelo a pagamento. Sì, ci è piaciuto ma così non va, te lo editiamo a pagamento. E chi paga? Tu, ovviamente. No. Se gli è piaciuto ma ritengono necessario un leggero intervento di editing saranno più che felici di farlo a loro spese, pur di avere un cavallo di razza da poter sfoggiare (e vendere) alla prossima fiera. Diverso ovviamente è il caso in cui siete voi a rivolgervi all’agenzia per sistemare il testoprima di proporlo per la rappresentanza; in questo caso il pagamento è doveroso ed è più che legittimo per l’agenzia chiederlo. TIPI DI AGENZIA Ci sono agenzie piccole e inutili. Come campano e qual è il disegno diabolico dietro? Scherzo ovviamente, non c’è nulla di diabolico. Se mai poco chiaro, o poco etico. Avete presente quei piccoli editori che non hanno alcun tipo di distribuzione – eccetto internet a cui può accedere qualsiasi self publisher – ma si riempiono di collane e di pubblicazioni in modo da guadagnare un tot su quella trentina di copie vendute ai familiari degli autori e campare giocando sul numero elevato? Loro si definiscono no-eap. E lo sono. Solo che non ti fanno uno straccio di editing, non sei distribuito e se vuoi le copie del tuo libro le devi pagare. Legale sì, etico fino a un certo punto. Non c’è nulla di illegale per un’agenzia nemmeno nel prendere un autore desideroso di pubblicazione, salassarlo tra scheda e editing, e magari proporgli il contratto di pubblicazione con una delle “tende” editrici di cui sopra a cui, senza alcun tipo di tramite, saresti potuto arrivare da solo. Solo che, appunto, perché dovresti pagare loro se puoi fare da solo?
Ci sono poi le agenzie letterarie medie, a cui solitamente si corrisponde la quota e che, dopo la scheda (e in base a essa), decidono se rappresentarti o meno. Di solito trattano con dignitosissime case editrici di medie dimensioni, con qualche incursione verso le grandi. Sono quelle che ti consiglio.
E infine ci sono le grandi, chimere irraggiungibili, che lavorano con autori affermati, hanno contatti con le più grandi case editrici a cui a volte possono addirittura imporre i propri autori. Ma sono così inarrivabili che è valido per loro lo stesso discorso delle grandi case editrici: innumerevoli proposte, innumerevoli possibilità di scelta (e difficoltà di essere scelto per l’esordiente).
Un altro suggerimento che posso darti è di non provarle tutte, come va va. Sii selettivo e basa la tua scelta anche sulla sintonia che potrebbe instaurarsi tra te e il tuo agente. Come? Tornando allo studio degli autori rappresentati dall’agenzia che ti interessa: prova a capire che tipo di libri sono i loro, le tematiche che affrontano, gli stili, i target di riferimento. In questo modo potrai comprendere con facilità qual è il tipo di autore/autrice che quell’agenzia cerca e se tu sei quel tipo di autore/autrice.
VALE LA PENA SPENDERE SOLDI? Di questi tempi, in cui gli editori sono sempre più oppressi dal gran numero di proposte, avere un’opportunità in più per farsi leggere potrebbe essere una buona risorsa per un autore emergente. La figura dell’agente letterario è conosciuta e parte integrante del mondo editoriale. Per quanto mi riguarda credo sia doveroso corrispondere un compenso a chi lavora su un testo. L’impegno che una scheda di valutazione necessita è lungo e richiede competenza. Questo va riconosciuto al professionista in termini pecuniari, come in tutti i tipi di mercati.
La scheda serve anche per migliorare il testo e il proprio modo di scrivere, perciò è molto utile, ma visto che prima di mandarlo a un’agenzia il testo dovrebbe essere già al massimo delle sue possibilità, pena giocarsi l’unico (o quasi) tramite con le case editrici di buon livello, può essere utile farsi redigere una scheda da un editor privato o un’agenzia di servizi, prima di inviarlo, lavorare ancora sul testo in base alle indicazioni e infine tentare la sorte. Vale sempre la pena di investire sul proprio lavoro, quando ci si crede.
Ma se prendono il 10% sul mio lavoro, perché mi chiedono soldi per la scheda? È presto detto: su un testo che prendono, 99 ne scartano (e sono stato ottimista) e non è detto che questo testo poi venga davvero pubblicato, perciò alla fine è probabile che non ci ricavino nulla. In più negli ultimi anni gli anticipi delle case editrici agli scrittori sono sempre più risicati e la percentuale per le agenzie si riduce ulteriormente. Il professionista per leggere lo scritto e redigere la scheda, però, lo devono pagare, e non vogliono prendersi il rischio di farlo senza avere un ritorno. Come biasimarli. LE AGENZIE LETTERARIE IN ITALIA Per concludere, di seguito un elenco di alcune tra le agenzie più conosciute e accreditate (Elenco aggiornato aprile 2023).
Un editor scarta un testo dopo le prime dieci righe. Tanto infatti gli basta a stabilire il livello di maturità della scrittura. Per la mia esperienza tre sono i principali problemi per cui una scrittura si mostra acerba, e conoscerli può esservi utile a risolverli. Vediamo quali sono.
Il valutatore editoriale cerca innanzitutto una voce. Una voce matura, distintiva, forte e consapevole. Poi viene il resto. Idea, personaggi, trama… Se non c’è una voce solida a sostenere il tutto, il testo crolla. Lo sa bene l’editor che ne scarta a decine, ogni giorno. Un manoscritto senza una voce interessante è scartato subito perché la storia, i personaggi e le scene, con un editor le puoi sistemare. Ma se il problema è la scrittura è tutta un’altra faccenda.
Il presidente di una nota multinazionale di freni per auto e moto ricorda con piacere una lettera del direttore sportivo di un team di Formula 1 che lo ringraziava perché i loro nuovi freni avevano consentito una riduzione del tempo sul giro di alcuni decimi di secondo: se avessero aumentato la potenza del motore avrebbero speso decine di milioni di dollari ottenendo lo stesso risultato.
Il discorso è molto simile. La storia, i personaggi e tutto ciò che riguarda la struttura si sistema con poco sforzo quando alla base c’è una voce potente. Viceversa se hai personaggi, idee forti ma non hai una voce, ci vuole una grande spesa per l’editor in termini di tempo e fatica per migliorarla. Qual è l’editore che sceglie un manoscritto su cui deve lavorare pesantemente, invece di un testo che è scritto molto bene, a cui bisogna solo limare un poco la trama? Ve lo dico io. Non esiste. L’editore vuole guadagnare – giustamente, è il suo lavoro –, non insegnarvi a scrivere.
Quali sono i problemi di un testo che svelano subito, senza ombra di dubbio, che la voce autoriale è incerta?
Aggettivazione eccessiva. Qualcuno ha detto che di due aggettivi, uno è di troppo. Ma se chiedete a me spesso anche solo il primo. La tentazione dello scrittore incompiuto è di infarcire la prosa di aggettivi, come se questo rendesse la lettura più piacevole, la descrizione più dettagliata. In realtà il novanta per cento delle volte gli aggettivi sono di troppo, e finiscono per appesantire la lettura (e irritare il lettore smaliziato). Fateci caso, quanti aggettivi di quelli che usate sono superflui? Prendete un qualsiasi racconto di Hemingway, oppure di Carver. L’aggettivo è raro, e usato quando serve. Quando è evocativo, quando è stupefacente, inatteso. Sentite come “L’ombra calda” evochi subito una sensazione (Hemingway). O “il verde tenero” dell’erba a primavera (Pavese). E invece come in “il cappotto pesante”, l’aggettivo sia pressoché inutile, oltre che abusato. L’abuso ci porta subito al secondo punto.
Il cliché linguistico. Nel bel pamphlet “La scrittura non si insegna”, Vanni Santoni parla di “banality”, prendendo spunto da un vecchio videogioco e distorcendo il nome “fatality” che si riferiva al colpo di grazia, la mossa finale. Perché, dice, il cliché porta a una sola cosa: l’eliminazione. Le banality sono tutte quelle forme che ricorrono spesso negli scritti di autori non ancora formati. Di cosa stiamo parlando? Ecco alcuni esempi tratti dal libro: ampio salone, labbra carnose, lungo brivido, scorre a fiumi, spesso strato… E, ahimè, confermo. Le frasi fatte risuonano dissonanti fra le scapole del lettore editoriale che, trafitto una volta, raramente ve ne concederà una seconda. Ma ci sono buone notizie. Evitare il cliché linguistico è possibile. Come? Leggere e rileggere e, a colpi di accetta, eliminare tutto il già sentito. Certo, c’è da essere spietati, ed esserlo con la propria creatura, anche se per il suo bene, non sempre è facile. Ma almeno provateci.
Lo spiegone Va un po’ a braccetto con la tecnica numero uno dello scrittore moderno, lo show don’t tell. Quello dello spiegone è un problema piuttosto frequente e consiste nell’urgenza dell’autore di spiegare ogni singola cosa che succede nel libro. Cercate di evitarlo. Esprime insicurezza. Arriva al lettore come una giustificazione del perché la storia va in quella maniera, del perché quel personaggio fa questo, dice quello. E per estensione anche i dialoghi sono infarciti di queste spiegazioni, che finiscono per fare sentire il lettore come se lo si stesse trattando come uno sciocco a cui bisogna spiegarle, le cose, invece di mostrargliele affinché si faccia una sua idea. A me, fa chiudere il libro.* Quale delle due soluzioni di seguito vi intriga di più?
1 «Ho voglia di bere». «Non ci provare. Sono cinque anni che non bevi».
2 «Ho voglia di bere». «Perché proprio oggi?»
Dovete dare al lettore l’essenziale, il superfluo lasciate che lo costruisca da solo. Dovete metterlo in condizione di avere quello che serve, e permettergli di creare il resto nella sua mente. La lettura sarà un’esperienza attiva, stimolante e raramente noiosa.
Vel’caninov, un quarantenne ben inserito della borghesia Russa, è alle prese con uomo singolare e inquietante, che lo spia, lo segue e cerca di entrargli in casa. È il marito una sua ex amante, che lo informa della morte di lei. Pavel Pavlovic, questo il nome dell’uomo, cercherà l’amicizia di Vel’caninov, in un susseguirsi di stoccate tese a un tangibile e tragico esito finale.
In questo romanzo breve che arriva cinque anni dopo Delitto e Castigo, va in scena una dinamica già esplorata da Dostoevskij, quella del gatto con il topo, in cui si incontrano due archetipi della letteratura dell’autore: l’eterno marito e l’eterno amante. L’eterno marito è incarnato da Pavel Pavlovic, l’uomo che lungo il corso della propria esistenza non riesce mai a essere niente di più che il prolungamento, l’appendice della donna che accompagna in quel periodo. Uomini che per le donne si annullano. Viceversa Vel’caninov è l’eterno amante, il classico farfallone amoroso di dapontiana memoria, incapace di costruire un legame fisso e duraturo, ma perennemente attratto dal fascino femminile.
L’amante subisce i punzecchi del marito tradito nell’incertezza che questi sappia dei tradimenti della moglie con lui. Si innesta così una tensione narrativa che troverà risoluzione solo alla fine, quando tutti i nodi si scioglieranno e i misteri saranno svelati.
I toni sono accesi, enfatici, le reazioni sempre sopra le righe, alla ricerca di un risultato fastidioso, straniante. Comico, quasi. Una parodia del mondo inamidato della borghesia, delle linde sovrastrutture sociali poste a nascondere le peggiori nefandezze: il sottosuolo, come l’autore stesso avrà modo di definirlo in una sua successiva, celeberrima produzione.
Questo di Dostoevskij è un romanzo breve ma estremamente pregno, anche se – personalissima opinione – qualitativamente lontano dai suoi capolavori.
Dedicato alla silenziosa eroica resistenza di quei ferrovieri che quotidianamente si ribellano ai barbari tentativi di demolire il loro civilissimo mondo.
È la frase posta in esergo con cui si apre il libro e che ne sintetizza in modo ironico l’humus, il substrato di fattori sociali e culturali la cui interazione comporta il nascere delle situazioni e dei fatti del libro stesso. La rivolta del ferroviere Mazzei (matricola 424733) – edito da La gazza Edizioni – è una raccolta di racconti autoconclusivi in cui il protagonista vive esperienze di vita quotidiana, legate nel loro insieme da un trait d’union facilmente intuibile: il mondo delle ferrovie Milanesi.
Mazzei – come lo stesso autore Goffredo Gorini – è ferroviere, ed è tra treni e binari che scorrono le sue giornate, tra bevute con gli amici, discussioni in mensa per della birra rubata, orti abusivi, infortuni scientifici e non, manifestazioni e scioperi. Scene di vita di un ferroviere. Scene che toccano anche momenti storici di Milano, come il periodo della classe operaia, delle manifestazioni e delle cariche della polizia, degli scontri fra i facinorosi appartenenti alle varie fazioni politiche. Esistono gruppi sociali dietro a determinate tipologie lavorative che sono veri e propri microsistemi autonomi. Essi brulicano di esistenze intrecciate e connesse, e sono dotati di convenzioni che, per chi le abita, da dentro, sono normalità. Un vero e proprio microcosmo, che visto da fuori, da chi non vi appartiene, appare spesso singolare e curioso. Il mondo dei ferrovieri è uno di questi.
Guidati dal caronte della voce narrante e da un mentore come Mazzei, è bello introdursi e osservare dall’interno le dinamiche quotidiane, esplorare persone, volti, voci, ambienti, modalità, per noi quasi del tutto inediti. Una visita immersiva da turista, su una navicella blindata e sicura. La narrazione è in terza persona, una voce narrante di concezione verghiana, per certi versi, che potrebbe essere quella di un collega di Mazzei, e ne condivide idee, visione e punti di vista.
Altro che furto, il derubato vero era lui, che andava a fare dieci ore di notte in mezzo alla neve con sei gradi sotto zero. E senza giacca a vento, anche.
La voce narrante tiene la distanza tra il lettore, e loro, i ferrovieri. Ci ricorda che sta parlando con noi, trattandoci come chi non ne sa e che la vede diversamente, cercando di istruirci, di farci capire come ragionano loro. E l’autore lo rende attraverso interventi metanarrativi di metodo manzoniano, rivolti direttamente a chi legge:
Ecco, avanti, ditelo pure. Per voi Mazzei aveva torto a rubare due birre in mensa.
Mi pare di sentire la cantilena. “Ma se tutti rubassero le birre…” E se tutti pagassero le tasse. E il biglietto del tram. Facile, eh, fare gli onesti. Ma mica tutti andavamo a fare la notte, in quella notte da cani, con le scarpe già bagnate. E col cappotto, poi, senza giacca a vento. Pensatelo, pensatelo pure che il Mazzei facesse il ladro, fate come vi pare, voi onesti uomini.
I personaggi sono simpatici e dotati di cuore, accomunati da un destino invisibile alla luce del giorno, eppure così vivo e pieno. Il ferroviere Maffei mi ha ricordato l’operaio Massa di “La classe operaia va in paradiso”, e il suo microcosmo lavorativo – in quel caso afferente alle fabbriche di fine anni Sessanta. Un libro brioso, che con slancio evita pietismi ma incontra molti altri tipi di emozione. E mi fermo qui, per non togliervi il gusto della lettura. Lettura che consiglio.
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